La terza guerra mondiale è cominciata. Al momento i due fronti più caldi sono quello ucraino e quello palestinese. Analizzandoli, si sente spesso affermare – anche da compagni di area comunista – che i paesi occidentali non vorrebbero “l’allargamento del conflitto”. Gli argomenti a sostegno di questa tesi sono principalmente due.
Il primo consiste nel sottolineare la “moderazione” del presidente USA rispetto ai “falchi” che ne infestano Parlamento e governo. Ciò ha il merito di evidenziare i contrasti interni alla classe dominante per quanto riguarda il perseguimento dell’interesse nazionale. Da un lato, i “moderati” vorrebbero utilizzare i soldi pubblici per favorire lo sviluppo economico interno (Inflation reduction act). Lo scontro con la Cina è inevitabile ma va preparato e per questo rimandato.
Dall’altro, gli “estremisti” vorrebbero mantenere l’egemonia statunitense con la forza delle armi al fine di contenere sul nascere lo sviluppo e la competitività degli altri poli imperialisti o antagonisti. Due schieramenti rigorosamente bipartisan (Joe Biden e Donald Trump da un lato, Victoria Nuland e Ron DeSantis dall’altro).
Un’altra prova a favore dell’interesse occidentale al contenimento del conflitto sarebbe l’oggettiva difficoltà a sostenere un fronte ancora più esteso. Questa interpretazione si basa sulla constatazione che le principali economie imperialistiche occidentali sono ancora impreparate a sostenere una guerra ampia e di lunga durata. Come dimostra l’andamento delle battaglie sul fronte Ucraino, lo sono sia da un punto di vista economico-militare, sia da un punto di vista politico-ideologico.
Entrambe queste interpretazioni sono però insufficienti, in quanto presuppongono il primato della politica (oggi geo-politica) sull’economia.
Al contrario, è proprio il ristagno negli affari e nella profittabilità degli investimenti dei capitali a base euro-dollaro e il maggior dinamismo e competitività di quelli localizzati in altre aree del pianeta che impongono il crescente ricorso alle armi. Solamente la distruzione dei capitali concorrenti e il saccheggio delle risorse dei paesi da cui provengono può ristabilire la convenienza degli investimenti. Per questo le enormi “iniezioni” di liquidità e le agevolazioni di vario tipo che ci sono state durante la pandemia, e che ancora oggi in parte sopravvivono, non sono bastate.
Per continuare a far sì che lo Stato sia in grado di garantire la “pace sociale” e mantenere in vita aziende che le leggi del mercato condannerebbero al fallimento, c’è bisogno di risorse. Risorse che, normalmente, possono essere reperite solamente mediante il crescente saccheggio interno: taglio dei salari e aumento delle imposte: da questo punto di vista, il debito pubblico rappresenta tasse future o tagli alla spesa posticipati. Il che diventa impossibile se la profittabilità non riparte e, conseguentemente, gli investimenti.
Pertanto, perdurando la crisi, se non si vuole rischiare la guerra civile non rimane altro che passare al saccheggio delle risorse esterne: la guerra tra Stati. Ecco perché il fronte delle “guerre infinite” è decisamente più forte e, purtroppo, coerente con le leggi dell’economia capitalista.
Se l’interesse occidentale consiste nell’allargamento del conflitto, quello degli altri paesi consiste nel suo contenimento. I BRICS+ (e non solo) potrebbero tranquillamente fare a meno della guerra. In questa fase, il loro sviluppo e la loro prosperità (che poi essa sia effettivamente redistribuita al loro interno è un’altra questione) si basa sui meccanismi di mercato e non hanno alcun bisogno di dar fuoco alle polveri se non vi vengono costretti (es. Russia).
Ciononostante, la guerra può essere utile anche a loro per rafforzare i legami interni a danno di quelli con le economie occidentali. Una dinamica (conosciuta come disaccoppiamento, de-dollarizzazione, ecc) tutt’altro che lineare e pacifica, anche perché fonte di ulteriore instabilità. Per quanto possa sembrare paradossale, è proprio l’interconnessione tra le principali economie – la transnazionalità del capitale monopolistico-finanziario – a costituire oggi il freno maggiore all’allargamento del conflitto.
Con buona pace delle masse popolari che si mobilitano contro la guerra.
L’imperialismo del XXI secolo, infatti, è ben diverso dal “capitale monopolistico di Stato” dominante fino alla seconda guerra mondiale. All’epoca, ciascuno Stato dominante aveva un rapporto biunivoco diretto coi capitalisti nazionali e la penetrazione finanziaria del mercato mondiale avveniva specialmente verso i paesi terzi (sfere di influenza).
Ciò avveniva fondando filiali prive di autonomia e votate all’esportazione verso la madrepatria, col potere di direzione e controllo in capo a quella che rimaneva la principale società operativa ubicata nel paese di origine.
Al contrario, l’attuale fase transnazionale si caratterizza per una penetrazione finanziaria (investimenti diretti esteri e di portafoglio) che avviene non soltanto dai paesi dominanti a quelli dominati ma anche (e soprattutto) tra i primi, con la conseguente creazione di assetti proprietari internazionali.
La seconda caratteristica riguarda la creazione nei paesi dominanti di società di partecipazione (holding) per il controllo strategico della produzione e del credito ma prive di funzioni esecutive, lasciando ad altre società del gruppo sparse in giro per il mondo (filiera) soltanto i compiti operativi, per i quali godono di maggiore (e grande) autonomia rispetto al passato: dalla holding vengono fissati i risultati da raggiungere lasciando decisione su come raggiungerli in capo ai singoli stabilimenti.
La terza caratteristica consiste in un sistema di controllo (comando) maggiormente centralizzato grazie all’azionariato diffuso, al sistema delle scatole cinesi e all’introduzione di azioni con voto plurimo o maggiorato – che consente di nominare la maggioranza dei membri dei CDA pur non avendo la maggioranza assoluta delle azioni – e, al polo opposto, operazioni di esternalizzazione che arrivano fino a trasformare i singoli lavoratori in apparenti imprenditori di sé stessi, formalmente autonomi ma sostanzialmente dipendenti.
Tutto ciò determina che alle classiche contraddizioni (conflittualità) tra paesi (e poli) imperialisti si affianchino nuove contraddizioni (e conflittualità) tra associazioni di capitalisti, che si caratterizzano per avere assetti proprietari internazionali e trasversali ai diversi paesi. Ciò significa che ciascuno Stato deve rappresentare tutti i capitali stanziati nel paese (indipendentemente dalla nazione di provenienza) e mediare tra i loro interessi, spesso contrapposti.
Dal punto di vista della politica estera, questo implica che ogniqualvolta si impongono sanzioni o si scatena una guerra non vengono colpiti solamente i capitali del paese nemico ma anche i propri che in quel paese si sono insediati. Una transnazionalità che mina alla radice il concetto di “Occidente” quale entità coesa e coerente.
Al contrario, le sanzioni contro la Russia dimostrano quanto esse siano controproducenti soprattutto per molti paesi europei, a tutto vantaggio dei capitali a stelle e strisce (motivo per cui il governo statunitense è più guerrafondaio di molti governi europei).
In conclusione, occorre preparare il proletariato italiano ad un progressivo allargamento e approfondimento del conflitto. A partire dal fronte interno, che dovrà essere più strettamente controllato e irregimentato al fine di renderlo maggiormente pronto alla mobilitazione. Con tutte le contraddizioni che ciò comporta, in primis economiche (l’economia di guerra è un’economia maggiormente pianificata).
1 Comment
🔴 Segui e fai seguire Telegram de LA RISCOSSA🔴
L’informazione dalla parte giusta della storia.
📚 t.me/lariscossa