Perché lavorare fino al nono mese di gravidanza indebolisce i diritti delle donne

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Perché lavorare fino al nono mese di gravidanza indebolisce i diritti delle donne

*di Sabrina Cristallo

Cade la scure sui diritti delle donne lavoratrici. Con l’emendamento della Lega passato in commissione bilancio, le donne in dolce attesa – previo consulto medico – potranno lavorare fino al nono mese di gravidanza, così da utilizzare i cinque mesi di congedo interamente dopo il parto. Si scrive “libera scelta”, si legge sfruttamento! 

Sostenuto dall’autorevolezza che agli occhi dell’opinione pubblica possono assumere le parole favorevoli con cui i vertici della Società italiana di ginecologia e ostetricia si è espressa in merito – sottolineando semplicisticamente come la gravidanza non sia una malattia – questo governo concede l’ennesimo regalo ai padroni, nascondendone tutta la bruttura dietro un’apparente avanzamento delle facoltà di scelta della donna. 

Ma quando la mistificazione della realtà si scontra con la verità, sappiamo che a pagare sono le donne delle classi meno abbienti, le sfruttate, malpagate e precarie. Basta dare un’occhiata ai dati raccolti dall’Osservatorio Nazionale Mobbing per aver chiare le condizioni in cui spesso una lavoratrice precipita per l’attesa e l’arrivo di un figlio. Stime recenti parlano di 350mila donne discriminate per il fatto di essere in stato di gravidanza o per aver osato avanzare richiesta di conciliare lavoro e vita familiare. Negli ultimi anni infatti si è registrato un incremento del 30% di casi di mobbing da maternità, 4 mamme su 10 si trovano costrette a rassegnare le dimissioni per il mobbing post parto, ma i casi che si trasformano in denunce sono pochissimi. Dati drammatici che non possono comunque contenere l’intero fenomeno, dal momento che queste ingiustizie si consumano spesso nel silenzio delle vittime che, per timore di ritorsioni o per non compromettere ulteriormente la propria situazione lavorativa, decidono di tacere. 

Tra i comportamenti vessatori adottati nei confronti delle donne al rientro dalla maternità, spiccano il demansionamento, ovvero la non corretta riallocazione della lavoratrice al suo rientro in azienda, oppure la minaccia di trasferimento in altra città o l’assegnazione a turni incompatibili con la condizione di neomamma, ma perfettamente previsti dal contratto. Emarginata a causa delle insorte esigenze che per il padrone rappresentano nient’altro che un freno alla produttività, ad esempio i permessi per allattamento o la richiesta di orari migliori, la lavoratrice viene così indotta a lasciare il proprio impiego. 

Detto questo, possiamo convenire come lavorare fino al nono mese di gravidanza sia tutt’altro che un avanzamento dei diritti della donna, bensì un ulteriore via libera allo sfruttamento più sfrenato. È evidente come una donna in stato di attesa, la quale partecipa o risulti la sola fonte del reddito familiare, spesso esiguo, sia tentata allo sforzo di lavorare fino all’ultimo, magari pensando che ne trarrà poi maggiore riconoscenza dal datore quando la sua situazione sarà mutata e avrà bisogno di maggiore elasticità. Così come è evidente che il padrone potrà trarre vantaggio dallo sfruttamento fino in fondo della lavoratrice prima, quando si trova in una condizione di ricattabilità maggiore, per costringerla alle dimissioni subito dopo, quando risulterà invece un peso per l’azienda. 

L’arretramento progressivo in cui il succedersi dei governi borghesi stanno conducendo la classe lavoratrice non si arresta. Le fasce più deboli della popolazione continuano a subire le contraddizioni del sistema capitalistico: mentre i ricchi diventano sempre più ricchi, alle donne delle classi popolari viene riservato di sommare alle fatiche della gravidanza anche quelle del lavoro, trattate come merci in un momento della vita in cui la tranquillità dovrebbe essere la condizione primaria. 

Diversamente, nel Socialismo, il benessere della donna rappresentava un campo in costante ricerca e sviluppo. Esattamente un secolo fa, il Codice del Lavoro dell’Unione Sovietica, datato 1918, si mostrava all’avanguardia anche in materia di sostegno alla maternità. Il congedo di maternità iniziava dopo il quarto mese: stipendio pieno e la possibilità di restare a casa col bambino fino al compimento del primo anno di vita, con il lavoro salvaguardato e alleggerito al termine della gravidanza. Durante il primo anno e per l’intero periodo di allattamento, le neomamme avevano diritto a 30 minuti di tempo ogni tre ore per nutrire il piccolo. Enorme attenzione era riservata anche al sostegno all’infanzia: considerati da Lenin come “i germogli del comunismo”, lo Stato sovietico in poco tempo poté vantare di una fitta rete di asili nido e giardini d’infanzia, allocati persino nelle università e nella maggior parte delle fabbriche, nonché di colonie estive e case dei pionieri.  

Nell’Italia del 2018, invece, solo un bambino su otto frequenta l’asilo nido per la mancanza di strutture e a causa del peso degli elevati costi che questi comportano sulle famiglie. 

Nel capitalismo, la sola cosa che progredisce a ritmi serrati è l’abbrutimento della società, sostenuto da governi troppo impegnati a servire gli interessi della classe dominante. 

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