di Sabrina Cristallo
“Otto ore di lavoro, otto ore di svago, otto ore per dormire”
Erano queste le parole d’ordine che videro la classe lavoratrice mondiale alla testa di una lunghissima stagione di lotte determinata dalla necessità di compiere quel passaggio fondamentale che finalmente avrebbe posto un limite allo sfruttamento del tempo di vita di milioni di lavoratori e lavoratrici, prima di quel momento definito esclusivamente dall’interesse del padrone e avrebbe trasformato lo schiavo salariato in uomo.
Una rivendicazione che, in Italia, prese campo a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento per culminare nel 1919-20 con il Biennio Rosso.
Laddove vigevano le condizioni peggiori di lavoro, la lotta divenne instancabile e si comprese che solo l’unità di classe avrebbe condotto ad una vittoria.
Dall’unione dei braccianti e delle mondariso del vercellese, primi in Italia ad ottenere per via contrattuale le 8 ore nel giugno del 1906, agli scioperi dei contadini e delle filandare e setaiole marchigiane dei primi del Novecento, guidate dall’operaia e sindacalista Gemma Perchi, la battaglia per le 8 ore conobbe il grande contributo delle donne.
In seguito, la crisi economica prodotta dalla prima guerra mondiale, da un lato e l’esempio della Rivoluzione sovietica, dall’altro, nonché le teorie di Antonio Gramsci e i suoi nuclei di autogoverno operaio, i Consigli di fabbrica, innescarono la possente ondata di agitazioni operaie culminate con l’occupazione delle terre e delle fabbriche.
L’estensione nazionale delle 8 ore lavorative si raggiunse, quindi, nel febbraio del 1919, dopo una lotta durissima durata interi decenni, attraversata dalla Grande Guerra e poi pagata a caro prezzo dall’avvento del fascismo; un risultato che, dopo un secolo, dovrebbe essere superato e quindi rimodulato in base alla capacità del progresso scientifico e tecnologico di accorciare i tempi di lavoro e invece, le condizioni di vita della classe lavoratrice si sono deteriorate.
La deregolamentazione del lavoro, il peggioramento di salari e pensioni, il lavoro a cottimo mascherato, il precariato, l’abbattimento dei costi sulla sicurezza nei luoghi di lavoro che ogni anno causano centinaia di morti, la disparità salariale tra uomo e donna, gli attacchi al diritto di sciopero, lo smantellamento delle politiche sociali, le privatizzazioni, le alleanze internazionali, le guerre imperialiste sono tutte misure portate avanti con successo dalla classe padronale degli ultimi trent’anni nella loro lotta per la massimizzazione dei profitti e l’accentramento della ricchezza da noi prodotta.
Il Primo Maggio è un faro che illumina la resistenza contro questi attacchi e accende l’internazionalismo proletario. Lavoro, pane, pace e libertà sono ancora le nostre pretese e la strada tracciata ci indica che uniti possiamo strapparle alla tirannia borghese.
Oggi più di ieri, questa data ci impone una profonda riflessione.
Questo preciso momento storico che stiamo attraversando, scosso dall’emergenza sanitaria, risulta emblematico di quanto affermato fin qui poiché l’attacco ai diritti dei lavoratori si intensifica ulteriormente e apertamente.
In pochi mesi di pandemia, a forza di decreti, stiamo assistendo ad una sfacciata offensiva verso quei diritti fondamentali ottenuti col sacrificio di decenni di lotte operaie come, tra l’altro, il limite massimo di orario di lavoro, il diritto alla salute e alla sicurezza sul lavoro, il diritto di fruire in modo concordato di istituzioni quali ferie, permessi e congedi, il diritto di sciopero e il diritto al lavoro stesso, come nel caso delle migliaia di lavoratori licenziati durante l’emergenza o delle migliaia di sanitari mandati in prima linea a rischiare la propria vita con contratti di assunzione di pochi mesi, sacrificabili fino all’insorgere della sintomatologia respiratoria da Coronavirus e considerati nei fatti come lavoratori usa e getta.
Gli stessi che, contemporaneamente, vengono definiti eroi ma ai quali viene sottratto anche il diritto al riposo: “agli esercenti le professioni sanitarie, impegnati a far fronte alla gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, non si applicano le disposizioni sui limiti massimi di orario di lavoro prescritti dai contratti di settore” (dal decreto legge n. 14/2020).
Sulla salute e la sicurezza di milioni di lavoratori e lavoratrici, pur di rimettere a pieno ritmo la macchina del profitto, il governo, Confindustria e i sindacati collaborazionisti riducono il discorso del rischio pandemico alla semplice dotazione di una doppia mascherina, nel caso in cui, lavorando spalla a spalla con i colleghi, non vi sia la possibilità di ricorrere a quel distanziamento sociale che invece appare decisivo per sconfiggere il virus, solo per quanto concerne la vita fuori dai luoghi di produzione.
Ma non si illudano!
Il distanziamento sociale non diventerà mai il modo di vivere permanente della classe lavoratrice. L’isolamento che accompagna questa giornata del Lavoro non è una sconfitta.
Il Primo Maggio 2020 deve segnare un nuovo inizio, una presa di posizione degli sfruttati di tutto il mondo contro le ingiustizie accentuate da questa crisi internazionale, una consapevolezza nuova capace di dare una spinta propulsiva alle lotte operaie e popolari, il passo decisivo che condurrà il proletariato a vincere la battaglia del lavoro e riprendersi tutto.