di Riccardo Fogli
Il problema del dissesto idrogeologico è molto sentito dalla popolazione emiliano-romagnola che anche in tempi recenti ne ha subito sulla propria pelle gli effetti. Non occorre infatti andare molto indietro nel tempo per trovare eventi di grossa portata che hanno dato luogo a situazioni davvero difficili.
In pianura il problema principale sono le esondazioni, basti pensare a quella disastrosa del Secchia nel gennaio del 2014, le cui acque, con la rottura dell’argine destro poco a nord di Modena, hanno invaso gli abitati di Alboreto, Sorbara, Bastiglia e Bomporto, distante circa 15Km dalla rotta. Nei giorni a seguire le acque si spinsero fino a 30Km di distanza per un’area di circa 200Km2, costringendo più di 10mila persone all’evacuazione e causando danni ad allevamenti, abitazioni ed attività commerciali.
Nel dicembre del 2017 è stata la volta del fiume Enza, esondato in più punti a Brescello in provincia di Reggio Emilia. Le sue acque hanno interessato centinaia di ettari di campagna, causando oltre mille sfollati.
Nel bolognese, a Budrio, l’Idice è esondato a novembre di quest’anno (2019) con più di duecento evacuati e centinaia di ettari di terreno allagati. Sono da considerare in aggiunta a ciò anche i disagi che continuano a interessare quei pendolari che usavano la tratta ferroviaria fra Bologna e Budrio per andare a lavoro e che tutt’ora è parzialmente bloccata.
Sull’Appennino, invece, più sentito è il problema dei fenomeni franosi, che interessano, oltre agli edifici, anche vie di comunicazione come strade e ponti. La cronaca locale è piena di notizie circa strade parzialmente o totalmente inagibili o di edifici lesionati o in pericolo a causa di movimenti di frana. Il Servizio Geologico Sismico e dei Suoli (SGSS) dell’Emilia–Romagna ha censito oltre 70mila corpi di frana e stimato che circa duemila centri abitati sono direttamente minacciati da frane antiche che potrebbero riattivarsi a causa di fenomeni atmosferici sempre più estremi, diretta conseguenza del cambiamento climatico in atto.
Sul litorale adriatico la situazione non è migliore. I 110Km di costa che dalla laguna di Goro (FE) arriva fino a Cattolica (RN), vedono quasi ogni anno mareggiate sempre più gravi che portano enormi danni agli stabilimenti balneari presenti, soprattutto nei tratti privi di opere difensive. Non solo le attività commerciali sono a rischio durante questi fenomeni sempre meno rari, ma anche la flora, le pinete, presenti a ridosso della costa che possono vedere le loro radici venire a contatto con l’acqua salata con conseguenze anche fatali per la loro sopravvivenza.
Nel rapporto sul dissesto idrogeologico del 2018, dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), viene stimato che in regione più di 64mila persone, oltre a circa 56mila edifici e 7500 imprese, sono a rischio in aree a pericolosità di frana da elevata fino a molto elevata. Mentre più di 3.2 milioni di persone, oltre a quasi 700mila edifici e quasi 300mila imprese sono a rischio in aree a pericolosità idraulica da media a elevata.
A cosa è dovuta quindi questa “fragilità” che caratterizza la nostra regione? La storia e le caratteristiche geologiche, l’attività umana diretta, i cambiamenti climatici e l’opera di animali selvatici concorrono alla vulnerabilità di questo territorio.
La catena Appenninica è un orogene geologicamente giovane che ha subito forti dislocazioni verticali, portandola in uno stato di disequilibrio idrogeologico. A questo si unisce la grande abbondanza litologie marnoso-argillose, cioè di argille e più in generale di rocce “tenere”, che favoriscono erosione e sviluppo di dissesti.
Ad un contesto già di per sé non facile si sono aggiunti interventi antropici scorretti che hanno aumentato la frequenza degli eventi e l’intensità dei danni. In passato fu l’estrazione di inerti (ghiaia e sabbia) direttamente dagli alvei dei fiumi ad arrecare gravi danni a ponti e strade, cambiamenti dei deflussi di sedimenti verso la foce e quindi erosione delle spiagge sul litorale adriatico. Fortunatamente questa pratica è stata bandita nel 1981. Attualmente persistono problematiche come le arginature dei corsi d’acqua entro alvei troppo stretti, ma anche l’abbandono delle colture nelle aree montane e pratiche agricole come l’aratura a rittochino, eseguite cioè lungo le linee di massima pendenza del versante, che favoriscono l’erosione del suolo. L’edificazione nelle casse di espansione naturale dei fiumi, nelle golene, invece non ha fatto altro che aumentare l’entità delle piene e la gravità dei danni delle esondazioni. Altra problematica che si va a sovrapporre è quella della proliferazione di specie animali che scavano la propria tana nel terreno, molto spesso negli argini dei fiumi indebolendoli e rendendoli molto fragili in determinate condizioni di piena.
Per quanto riguarda il litorale emiliano–romagnolo, l’attività antropica passata e presente come l’estrazione di acqua ad uso irriguo e di idrocarburi vicino alla costa (causa di un aumento del tasso di subsidenza, ovvero un abbassamento del terreno), unita alla già citata escavazione in alveo di inerti (causa di un ridotto apporto di sedimenti alle spiagge) ed all’aumento del livello del mare, causato dal riscaldamento globale, ha portato e porta ad una intensificazione dei processi erosivi naturali.
Per far fronte a queste problematiche l’intervento della Regione è stato volto principalmente a creare cantieri per la realizzazione di opere di difesa e restauro di quelle già esistenti. Nel 2019, nelle varie province, si è dato il via ai primi 18 interventi per una spesa di circa 21 milioni di euro provenienti dal Ministero dell’Ambiente. Interventi e fondi assolutamente non sufficienti. Secondo quanto rilevato in questi anni, infatti, sarebbero necessari almeno 89 cantieri per una spesa complessiva di 102 milioni di euro per la realizzazione di casse di espansione fluviale, nuove arginature, taglio della vegetazione in alveo, rifacimento delle opere di protezione litoranee, consolidamento dei versanti in frana e riapertura di strade comunali e provinciali lesionate. In attesa dei fondi ministeriali, la Regione, ha chiesto di poter accedere ai mutui BEI (Banca Europea degli Investimenti) per poter far partire i cantieri. «La mancanza di fondi per questo tipo di interventi – afferma Laura Bergamini, candidata presidente per il Partito Comunista alle regionali del prossimo 26 gennaio – è inaccettabile e discende da diversi fattori. Da un lato la volontà politica dei governi succedutisi in questi anni e della Regione a guida PD di allocare in altro modo le risorse: si pensi, ad esempio, ai 52,3 milioni i contributi pubblici di cui circa 6,8 della Regione usati per finanziare progetti d’impresa dal 2017 a oggi. Dall’altro la gabbia dei vincoli di bilancio imposti dall’UE che comporta scarse disponibilità di spesa pubblica di cui fanno le spese sempre i ceti popolari dell’Emilia-Romagna e in generale in tutto il paese».
Oltre alle opere citate sopra, è necessaria la pianificazione di una seria e costante opera di prevenzione sul territorio attraverso frequenti ispezioni di tecnici e geologi e un maggior rafforzamento del ruolo dei comuni nel governo del territorio. «Come Partito Comunista ci siamo sempre battuti contro la dinamica degli ultimi anni per la quale i comuni sono diventati via via un salvadanaio a cui i governi attingono per cercare risorse e sono stati privati della loro primaria funzione di servizi al cittadino – continua Laura Bergamini – Per quanto l’accordo del 2016 tra l’Associazione Nazionale Comuni Italiani dell’Emilia-Romagna (ANCI E-R) e l’Ordine dei Geologi dell’Emilia Romagna (OGER), che prevede la presenza di un geologo per ogni Comune, la creazione di presidi geologici territoriali, la formazione di tecnici comunali e supporto ai Comuni per la predisposizione di bandi per incarichi professionali di tipo geologico, possa sembrare un timido passo in avanti in questa direzione, dobbiamo comprendere che servirà la volontà politica di trovare le risorse necessarie per ovviare al dissesto idrogeologico uscendo dalla logica dei vincoli europei e dalla logica delle amministrazioni di ogni livello che scaricano sui lavoratori e cittadini il peso delle politiche antipopolari».
«La valorizzazione di tecnici e geologi, la realizzazione di un grande piano non solo regionale ma anche nazionale per ovviare al problema del dissesto idrogeologico è sostenuto oramai da anni dal Partito Comunista» – conclude la nota – «Si tratta di un piano che, unito all’educazione alla prevenzione e al rispetto del proprio habitat, può portare ad un vero salto in avanti in regione e in Italia.»