di Lorenzo Scala
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un vero e proprio “risveglio politico” del mondo latinoamericano e al costituirsi in esso di numerosi governi progressisti, aventi l’esplicito obiettivo di sottrarre i propri popoli alle logiche del profitto e dell’imperialismo. Sfidando chi parlava della “fine della storia” e di “trionfo del capitalismo”, paesi come Venezuela, Bolivia ed Ecuador hanno dichiarato di voler costruire una società socialista. Questi governi hanno avuto meriti enormi nell’opposizione alle politiche imperialiste degli Stati Uniti nella regione e nella ridistribuzione della ricchezza nazionale. Soprattutto, la loro più grande conquista è stata quella di scolarizzare masse di centinaia di migliaia di persone e di renderle per la prima volta partecipi alla vita politica.
La rivoluzione è però un processo in continuo movimento e il suo cammino può essere spesso costellato di contraddizioni. Nel caso dei paesi latinoamericani in questione, molte difficoltà provengono da evidenti limiti ideologici della cosiddetta teoria del Socialismo del XXI secolo. Quest’ultima si ispira a un “socialismo democratico” che vede nel parlamentarismo borghese il terreno di scontro dove far valere le istanze del popolo e affermare la legalità socialista. Inoltre sostiene la possibilità di una coesistenza pacifica fra una parte di economia socializzata – maggioritaria e alla quale dare la precedenza- e un’altra privata. Nonostante la sincerità di intenti dei paesi rivoluzionari latinoamericani, siamo di fronte ad una riflessione insufficiente sulla natura classista dello Stato, sulla necessità della lotta di classe e sulla differenza fra “governo” di un paese e “potere” per una classe sociale. Non è questa la sede per discutere diffusamente sui limiti teorici insiti nell’idea di Socialismo del XXI Secolo. Vorremmo piuttosto sottolineare come a limiti del genere facciano spesso seguito delle disfunzionalità concrete. Partiamo da un fatto di cronaca politica, che ci servirà a titolo esemplificativo.
Il viceministro degli Interni boliviano, Rodolfo Illanes, è stato rapito, torturato e ucciso da dei minatori in sciopero coi quali aveva ricevuto il compito di negoziare. Il suo cadavere è stato ritrovato due giorni fa fuori dalla capitale, presso Panduro. In quella zona nelle ultime settimane avevano avuto luogo forti tensioni fra il governo e alcune cooperative minerarie organizzate nella Federacion Nacional de Cooperativas Mineras de Bolivia. Quest’ultima organizzazione avente oltre 150.000 iscritti pare sia egemonizzata da imprenditori privati e la natura della contesa col governo sembrerebbe confermarlo: si contesta al Presidente Evo Morales la nazionalizzazione delle risorse naturali della Bolivia e si pretende che le cooperative minerarie possano continuare a negoziare e siglare contratti diretti con le multinazionali straniere come nel passato. In un comunicato alla popolazione, Morales ha condannato la barbara uccisione del membro del suo governo e ha parlato di un vero e proprio complotto imperialistico per appropriarsi delle risorse naturali del suolo boliviano oltre che di una strumentalizzazione politica dei minatori da parte della destra nazionale.
Ridurre però ogni fenomeno destabilizzante a una manovra straniera potrebbe essere riduttivo. Certamente l’imperialismo non cesserà mai di vedere l’America Latina come una terra di conquista e di facile guadagno ma molto più pericoloso sarebbe ignorare la debolezza strutturale caratteristica di quasi tutti i governi di sinistra latinoamericani e quindi comune anche alla Bolivia. Il fatto che in Bolivia le multinazionali abbiano ancora spazio nel dibattito politico-economico del paese e che fino a poco tempo fa avessero potere contrattuale coi dirigenti di cooperativa testimonia i rischi ai quali si espone il processo rivoluzionario boliviano. Nonostante ci siano state importantissime nazionalizzazioni nei settori delle telecomunicazioni e dell’energia elettrica, non c’è ancora stata una definitiva virata verso la proprietà sociale dei mezzi di produzione. Il capitale privato continua a gestire in larga parte l’industria manifatturiera, il commercio con l’estero e ben nove banche boliviane.
La Bolivia è un paese dove al potere non c’è un vero e proprio partito d’avanguardia, ma un’unione di movimenti sociali popolari e solidaristici facenti però riferimento ad un sistema politico parlamentare e nominalmente interclassista. Un partito politico reazionario come il Fronte d’Unità Nazionale ha la possibilità di ostacolare all’interno del Congresso le politiche progressiste del governo. Per non parlare delle oltre duecento stazioni televisive private e degli altrettanto numerosi giornali dell’opposizione, dove possono trovare spazio ogni tipo di menzogne funzionali agli sfruttatori nazionali e agli imperialisti stranieri. E’ innegabile quindi come una situazione del genere sia terreno fertile per tutte le prevaricazioni condannate da Morales nel suo recente discorso. Sarebbe forse necessaria una riflessione più ampia della sinistra antimperialista latinoamericana sul carattere del socialismo che vorrebbe costruire e sulla strategia strettamente politica da adottare in un processo rivoluzionario e popolare.
A scanso di equivoci è bene ribadire che esperienze come quella venezuelana o boliviana vadano assolutamente sostenute in quanto progressiste e potenzialmente avviate alla costruzione di una società alternativa a quella capitalistica. Dall’altro lato però è da evitare l’atteggiamento di una certa sinistra europea che sposa acriticamente ogni singolo aspetto degli attuali esperimenti socialisti latinoamericani. Siamo convinti che il servizio più utile che si possa fare a questi popoli in lotta sia il sostegno critico e consapevole, l’unico sostegno autenticamente internazionalista.