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Ripartenza? Il lavoro prima di tutto!

Intervista di Pietro Fiocchi con lo psicologo del lavoro Stefano Gentili

“E’ allarme per i suicidi causati dal Covid” ci avvisava il titolo di una ben articolata notizia lanciata dall’AGI il 7 settembre del 2020, in cui si faceva il punto su un fenomeno grave e in crescita, determinato dalla nostra fragilità psicologica di fronte a qualcosa che sta annientando le nostre certezze e prospettive, a cominciare da lavoro e sopravvivenza fisica.

I dati statistici e quello che da questi possiamo azzardare di prevedere, ci dicono che le cose non stanno andando meglio e forse non miglioreranno: del resto la realtà reale spesso è molto peggiore della realtà percepita. Ma possiamo continuare a cercare risposte per “razionalizzare” e andare avanti passo passo, per delineare soluzioni concretamente possibili, per non cedere a tentazioni distruttive e autodistruttive. Ché sulle macerie si fa più fatica a ricostruire.

In merito, abbiamo intervistato lo psicologo Stefano Gentili, di Roma. Il Dott. Gentili ha alle spalle una lunga e impegnata carriera, cominciata come Cultore della materia presso la cattedra di Psicofisiologia dei processi mentali, interessandosi degli effetti dello stress sul comportamento, poi come professore a contratto di Psicologia del lavoro e di Psicotecnica.

Numerosi incarichi di insegnamento nel campo della gestione delle risorse umane e dell’organizzazione. Dal 1988 esercita la sua professione all’interno di un proprio studio di consulenza. È esperto di dinamica delle relazioni umane e autore di diverse pubblicazioni nel campo della psicologia del lavoro e delle conseguenze dello stress sul comportamento.

Relazioni umane e stress sono le parole chiave su cui lavorare per vincere la crisi e rimettere in piedi una società sana.

 

Cresce la disoccupazione e non è detto che il blocco dei licenziamenti possa essere prorogato all’infinito. Nell’ipotesi all’orizzonte di licenziamenti di massa, a quali fenomeni e dinamiche sociali rischiamo di andare incontro?

La ricerca scientifica ha da sempre sostenuto che il lavoro, o meglio il “fare con un fine”, è una di quelle attività che oltre a permettere di provvedere a se stessi contribuisce a creare gioia di vivere e costruzione della propria identità. Il tema non investe solo le fasce giovanili che, pur martoriate dalle situazioni economiche attuali, hanno davanti un futuro possibile o quantomeno hanno ancora tempo per costruirlo, ma anche chi, più in avanti con l’età,si è caricato nel tempo di responsabilità perché sicuro di poterle rispettare e non ha più molto tempo davanti per ricostruire.

Se ci pensiamo bene quando chiediamo a qualcuno cosa faccia nella vita, spesso ci sentiamo rispondere “io sono…” e non “faccio quella specifica cosa”. Tale aspetto ci induce a riflettere sul fatto che il lavoro ci crea identità sia sociale che personale e che la sua mancanza abbia una ripercussione su questi aspetti che, perdendoli, causino un vuoto difficilmente colmabile. Sembra che ciò che facciamo ci permette di essere.

Ora nella nostra vita conosciamo tanti sentimenti e tanti ne proviamo. Quelli collegati alla perdita sono vicini a quelli collegati al lutto e dunque proprio al senso di vuoto. Senza voler fare semplicismi psicologici potremmo dire che con la perdita del lavoro si sperimentano o malinconia o depressione o frustrazione, che poi si traduce o in rabbia, ma solo in alcuni casi, perseveranza. Dietro a ciò che facciamo o ci succede ci sta sempre un mondo legato alle emozioni e queste possono alterare il senso critico.

Operai, ristoratori, piccoli commercianti e imprenditori finora sono stati le principali vittime delle conseguenze economiche e psicologiche dell’emergenza sanitaria e della sua gestione. Se poi ad essere colpiti, anche nel loro benessere psicologico, saranno medici, infermieri, insegnanti, forze dell’ordine ecc cosa succede e cosa fin da ora può essere fatto per evitare un caos ingestibile?

Lei si ricorderà il tema degli “Eroi”, riferito al personale sanitario durante la prima parte della pandemia. Oggi molti di loro hanno ricevuto un grazie con pochi euro in busta paga e continuano a vivere in sistemi male organizzati. Abbiamo la memoria corta e ci innamoriamo sempre dell’ultimo venuto.

I piccoli commercianti poi hanno ricevuto un trattamento non proprio da elogiare. Molti di noi quando pensano all’imprenditore, che sia negoziante, ristoratore o piccola impresa, pensano a figure benestanti e quasi sempre a chi si muove con maestria sul terreno fiscale. In realtà abbiamo imparato che dietro ognuno di essi il più delle volte ci sta un soggetto che soffre, che lavora e offre lavoro ad altre famiglie e che dietro un’attività, ci sono problemi immensi.

Io penso che lo Stato, debba dare a tutti noi cittadini la possibilità di vivere degnamente e che chi fa del proprio lavoro un lavoro autonomo non sia un cittadino di serie B.

Bisogna riconoscere il ruolo e lo stato d’animo della persona. Io ho imparato questo: quando non si minimizza ciò che l’altro sente e si promuove rispetto per il ruolo che ricopre, abbiamo percorso più della metà del tragitto.

 

Ci può descrivere, a livello individuale e collettivo, lo stato mentale di chi si trova senza lavoro o che sa che presto o tardi non lo avrà più, senza possibilità di trovarne un altro e soprattutto senza reddito?

Nella sua domanda ci sta già una parte di risposta. È il termine senza, che deve essere analizzato, così come il presto o tardi. Voglio dire che sapere che accadrà qualcosa ma non avere certezza del quando accadrà, induce uno stato di ansia forte e un sentimento di incapacità di poter fronteggiare la situazione. È l’attesa dell’evento senza un termine preciso che alimenta l’ansia così come la impossibilità di far fronte alle proprie responsabilità scava una profonda voragine dentro di noi.

E poi il fallimento personale, altro tema che sentiamo ripetere da chi vive questa drammatica situazione. Molti pensano che sia solo la mancanza di sicurezza economica a creare tutto questo, ma non è così. Passiamo la nostra vita a riempirla di azioni, a sognare o immaginare, possedere, sentirsi padroni del destino, insomma a tentare di definirci e a fare del lavoro proprio ciò che ci definisce. Poi improvvisamente, impotenti davanti agli eventi che non possiamo condizionare, tutte le azioni produttive che abbiamo compiuto durante l’esistenza lavorativa, non hanno più valore.

Ricominciare per qualcuno è possibile; penso a chi ha una specializzazione particolare, a chi ha sviluppato le proprie competenze in linea con il mercato, a chi ha mantenuto rapporti esterni al proprio ambiente di lavoro, a coloro che hanno coltivato il proprio sviluppo personale. Qui ci può essere terreno per una ripartenza.

Poi se facciamo i conti con i numeri attuali, 29,7% di disoccupazione giovanile e una caduta precipitosa delle opportunità di impiego, anche i buoni propositi, vacillano. Ci sta da dire che alcune scelte fatte in passato, a mio parere, non hanno certo giovato. Le politiche giovanili non sono state sempre scelte felici.

Già nel 38, Eisenberg aveva descritto gli effetti della disoccupazione. Permettendomi qualche piccola aggiunta e volendo fare una forzatura descrivendo i sentimenti della persona in fasi potremmo dire che:

– prima sperimentiamo un senso di estraneità e di speranza: sembra quasi impossibile che possa accadere proprio a noi un fatto così terribile e ci difendiamo con la speranza che non sia vero o che non tocchi a noi.

– poi quando ci rendiamo conto che qualcosa di catastrofico si è abbattuto sulle nostre vite, ci difendiamo cercando il colpevole e percepiamo rabbia verso tutto e tutti. Crediamo che trovare il colpevole e vederlo condannato ci porterà il giusto risarcimento e calmerà la rabbia. In realtà anche questo è un modo per difenderci poiché la maggior parte delle volte nessuno riuscirà a ridarci ciò che abbiamo perso e il colpevole con estrema difficoltà ci ripagherà del danno.

– pessimismo, malinconia, depressione: Il senso di realtà ci porta a vedere tutto nero e ci fa perdere la speranza che inizialmente ci aveva sostenuto. Sono i momenti peggiori poiché il futuro non si immagina più ma si vive solo il presente. Si annulla quella illusione della mente che fino a poco tempo prima ci faceva credere che esistesse fisicamente il futuro e con quest’ultimo la possibilità che potesse esserci per noi un domani diverso.

Solo la determinazione e la coscienza di avere qualche numero da giocarsi può diventare in un secondo momento l’arma possibile per uscirne fuori. Ci sta sempre l’uomo e quello che si è, dietro ogni fatto che accade; come dire che poi a come sviluppare il dopodomani siamo noi a deciderlo.

 

Alla salute mentale degli italiani, in particolare di quelli in età produttiva, crede sia stata data sufficiente attenzione nei mesi della crisi ad oggi?

Diciamo che non esistono misure uguali per tutti. Ogni categoria ha le sue peculiarità. I giovani da anni sono quelli sotto pressione. Sappiamo bene che l’educazione e lo sviluppo delle competenze è un viatico chiave. Ancora oggi molti abbandonano la scuola nutrendo le fila degli svantaggiati.

Dietro tutto ciò ci sta la mancanza di educazione al domani, famiglie poco attente impossibilitate nel dare un futuro ai figli e misure di protezione sociale non sempre efficaci. Dare sostegno al reddito e aiuto alle famiglie è uno degli elementi che possono innescare effetti positivi, ma non può essere il solo. Forse dietro il denaro offerto dallo Stato per dare una vita dignitosa ad ognuno, ci dovrebbe essere l’obbligo, o almeno l’incentivo, di consumarne una parte per lo studio o per la cultura.

Poi in questo tempo di pandemia la scuola non ha potuto esercitare il suo ruolo educativo e sociale.

 

Quali strategie e misure concrete, in particolare nei confronti dei lavoratori precari, dei disoccupati, dei molti che per sopravvivere devono ricorrere a fonti di finanziamento non lecite, possono essere prese da oggi in poi per la tenuta psicologica della nostra società?

Intanto partiamo da un dato. Sono più di 15 anni che si è cercato di rendere il mercato del lavoro più flessibile e con il concetto di geometria variabile si è data alle imprese la possibilità di adeguarsi al mercato a fisarmonica ovvero acquisendo via via le risorse umane necessarie.

Tutto ciò ha mutato da un lato le condizioni dei lavoratori che si sono visti catapultati in sistemi variabili e instabili prima non concepibili, dall’altro un ampio ventaglio delle possibili forme contrattuali accompagnato da alcune deregolamentazioni. Hanno poi inciso anche gli spostamenti dell’età pensionabile, la presenza di lavoratori stranieri, un mondo orientato sui servizi etc…

 

Non si possono dare sussidi e redditi di cittadinanza a tutti e per sempre. Come deve essere ripensato e riorganizzato il lavoro per trovare da subito soluzioni all’emergenza occupazionale e ripartire?

Il reddito di cittadinanza in questo periodo di pandemia ha tamponato le emergenze più gravi. E proprio ora che si prevede che almeno 350 mila imprese potrebbero chiudere e sono pochi coloro che pensano di aprirne di nuove, non si vedono all’orizzonte idee, contributi, riflessioni, soluzioni diverse. Siamo abituati a risolvere l’oggi e manca visione del futuro. Per dirla semplice, si fa tanta tattica ma pochissima strategia.

È vero che dovremmo dare a tutti la possibilità di inseguire i propri sogni e offrire sostegno per far sì che questo accada, ma non in questa società purtroppo.

Rilanciare le grandi opere e la modernizzazione delle città, darebbe lavoro da subito a tantissime professionalità. Penso ai porti, ai trasporti, alle infrastrutture cittadine.

La pandemia ha accelerato il processo di digitalizzazione e probabilmente sopprimerà i lavori più semplici ma per quelli più complessi servirà sempre la presenza umana. Tutto questo sposta da subito la traiettoria degli studi che impegneranno i giovani.

La scuola così come l’Università dovrà cambiare i percorsi e vicino all’umanesimo tanto importante per capire il mondo nel quale si abita, ci dovrà essere un posto ampio per la ragione e la scienza, per promuovere il nostro paese in attesa di una riapertura globale.

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