Scarica l’articolo in formato PDF: SALARIO MINIMO E LAVORO
Negli ultimi trent’anni l’attacco ai diritti e ai salari dei lavoratori ha avuto come conseguenza Ia sistematica cancellazione di quanto conquistato nei precedenti decenni di lotte del movimento operaio. L’Italia è l’unico Paese europeo in cui salari sono diminuiti dal 1990 al 2020 (-2,9%), secondo il rapporto Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) del 2022. E per quanto riguarda il “lavoro povero”, che non riesce a garantire cioè livelli accettabili di sussistenza, il nostro Paese è al quarto posto nella UE, 11,8% del totale dei lavoratori, contro una media europea di 9,2%. Una situazione che non è ovviamente frutto di errori, ma che è stata scientemente voluta, da tutti i governi che si sono succeduti, indipendentemente dal colore politico, per seguire i diktat di Bruxelles e obbedire ai voleri di Confindustria e delle grandi imprese multinazionali. Ma è proprio riducendo scientemente il potere d’acquisto dei redditi da lavoro che si deprimono i consumi e si genera quella spirale negativa in cui da tempo si è avvitata l’economia italiana.
Proprio per questo il Partito Comunista da anni si batte per l’introduzione del salario minimo intercategoriale. Una rivendicazione presente sia nel programma elettorale delle elezioni politiche del 2018, sia in quello (della coalizione di ISP) delle politiche del 2022. Ben prima, insomma, che il tema diventasse “di moda” negli ultimi mesi. Ovviamente non potremmo che rallegrarci del fatto che anche forze politiche diverse e distanti da noi fossero arrivate a convergere su questo nostro punto programmatico; purtroppo la realtà è ben diversa.
La proposta di legge sostenuta da PD, Cinque Stelle, Sinistra Italiana e Azione, infatti è del tutto strumentale ed in comune con la posizione da sempre espressa dal nostro Partito ha solo il nome: “salario minimo”. Ora che sono all’opposizione questi “signori” hanno scoperto il problema del lavoro povero; peccato che sono gli stessi che in anni di governo hanno contribuito a smantellare i diritti e a comprimere i salari dei lavoratori. Già questo la dice lunga sul livello di credibilità della loro battaglia. Certo la fortuna di queste forze politiche è quello di trovarsi di fronte il governo reazionario della Meloni che, anche rispetto alla miseria di salario minimo proposta da PD-M5S-Azione-Sinistra Italiana, si mette sulla difensiva, apparendo come il difensore dei peggiori sfruttatori, quelli che vorrebbero continuare a prosperare pagando i dipendenti poco o nulla.
A noi quindi il compito di spiegare ai lavoratori che rischiano di farsi ingannare (secondo alcuni recenti sondaggi, la percentuale di lavoratori dipendenti favorevole al salario minimo oscilla tra il 75 e l’80%) e che quando si parla di salario minimo bisogna stare molto attenti a cosa si intende.
La proposta delle cosiddette “opposizioni” parlamentari è di un salario minimo a 9 euro l’ora lordi, che vorrebbe dire poco più di 6 euro netti: una vera miseria… del tutto inadeguata per far uscire i lavoratori dalla povertà. Dobbiamo dirlo chiaramente: anche se passasse questa legge, le paghe resterebbero da fame!
Di contro il Partito Comunista vuole l’introduzione del salario minimo intercategoriale di 12 euro/ora per ogni tipologia e settore di lavoro, e di 13 euro/ora per i lavori usuranti, specificando che la possibilità di deroga nei contratti collettivi nazionali e aziendali è limitata alle sole varianti migliorative.
Secondo la Fondazione Studi consulenti del lavoro, che ha preso in esame i 63 contratti tra i più rappresentativi, sarebbero 22 le tipologie contrattuali che hanno minimi salariali orari (comprensivi di quota TFR, 13ma e 14ma), inferiori ai 9 euro, per un totale di oltre due milioni (2.079.820) lavoratori interessati.
Ma dai dati pubblicati nello stesso studio si evince che se il salario minimo fosse di 12 euro l’ora, come proposto dal PC, a migliorare sarebbero ben 59 tipologie contrattuali sulle 63 esaminate, con una platea interessata di oltre 10 milioni di lavoratori. Quindi un salario minimo a 12 euro beneficerebbe praticamente tutte le categorie di lavoratori. Altro che il salario misero proposto da Schlein e compari!
Un’altra questione importante riguarda le coperture: chi paga l’aumento dei minimi salariali? Nella proposta di legge del PD-5 Stelle e cespugli vari, all’articolo 7 è previsto un “beneficio in favore dei datori di lavoro, per un periodo di tempo definito e in misura progressivamente decrescente, proporzionale agli incrementi retributivi corrisposti ai prestatori di lavoro al fine di adeguare il trattamento economico minimo orario all’importo di 9 euro”.
Il messaggio a Confindustria è chiaro ed è stato ironicamente sintetizzato dal Segretario Generale Alberto Lombardo: “Padroni, tranquilli, il salario minimo la facciamo pagare ai salariati e a tutti quelli che pagano le tasse, non certo a voi!”.
I piddini anche questa volta non si smentiscono volendo caricare sulle spalle della fiscalità generale il misero aumento salariale che propongono.
La posizione del Partito Comunista, invece anche su questo punto è chiara: i soldi per gli aumenti vanno presi dai profitti senza gravare sulle casse pubbliche e sulle tasse pagate da tutti quelli che vivono del proprio lavoro.
Infine per il Partito Comunista è ovvio che il salario minimo deve essere indicizzato all’inflazione con aumenti annuali automatici, mentre nella versione di salario minimo delle forze di centrosinistra nessun vero recupero dell’inflazione è previsto, ma solo una commissione che si dovrà riunire per valutare eventuali (incerti e indefiniti) aumenti nel tempo.
Il salario minimo non sfavorirebbe le piccole imprese? No, sfavorirebbe solamente quegli imprenditori che fondano la propria attività e il proprio benessere solo su salari bassi e scarsa innovazione tecnologica e gestionale.
Il salario minimo a 12/13 euro, una rivalutazione di tutti gli altri salari e la riduzione dell’orario di lavoro e la piena occupazione, favorirebbero un aumento generalizzato di risorse economiche e tempo libero e si innescherebbe un circolo virtuoso in grado di moltiplicare la domanda e la crescita, favorendo tutti i settori dell’economia, anche e sopratutto i piccoli esercizi commerciali e artigianali, contribuendo per questa via a rendere sostenibili le stesse finanze pubbliche.
Il salario minimo non provocherebbe un’esplosione del lavoro nero? È evidente che la legge sul salario minimo debba prevedere contestualmente un impegno reale a debellare ogni forma di lavoro nero, partendo dall’assunzione di migliaia di ispettori del lavoro per un maggiore controllo delle aziende. Oggi infatti un’azienda ha una possibilità di essere controllata dagli ispettori del lavoro una volta ogni 14 anni, con evidente azzeramento dei diritto a salute, sicurezza, salario e in generale ai diritti dei lavoratori, schiacciati dai ricatti padronali.
Oltre ad aumentare il numero di ispettori del lavoro, bisognerebbe creare commissioni di controllo operaio, elette a livello aziendale dai lavoratori, per il rispetto delle normative contrattuali e delle misure di sicurezza nei luoghi di lavoro.
Il salario minimo confliggerebbe con i CCNL e potrebbe essere di ostacolo alla contrattazione sindacale? Innanzi tutto non è vero che il salario minimo confligge con i CCNL. I contratti sono di diritto privato e non vengono aboliti dall’introduzione di un minimo salario per legge. Il punto è che proprio lo studio dei consulenti del lavoro citato prima, anche se volto in modo maldestro a sostenere l’inutilità del salario minimo e la funzione di tutela della contrattazione sindacale, dimostra esattamente il contrario, mettendo in luce come decine di contratti nazionali firmati dalle sigle confederali abbiano retribuzioni orarie di partenza decisamente inferiori ai 12 euro l’ora (e si tratta di cifre “gonfiate” dai ratei di mensilità aggiuntiva e di Tfr!). Con queste organizzazioni sindacali la contrattazione non salvaguarda un bel niente, anzi la piaga del lavoro povero è innescata proprio dalla sottoscrizione delle intese contrattuali siglate da Cgil, Cisl, Uil, Ugl.
Ovviamente siamo perfettamente consapevoli che il solo salario minimo non risolverebbe i problemi dei lavoratori. Come Partito Comunista abbiamo sempre inserito la lotta per il salario minimo all’interno di una battaglia complessiva. Innanzi tutto esigiamo il riconoscimento della piena parità salariale e dei diritti tra uomo e donna.
Contro i salari da fame erosi drammaticamente da un’inflazione galoppante ribadiamo con decisione un altro punto essenziale del nostro programma: la reintroduzione della scala mobile e l’aggancio di salari e pensioni all’inflazione reale.
Altra questione importante è la definizione di una Legge sulla Rappresentanza che consenta ai lavoratori di scegliersi liberamente e senza ricatti il sindacato a cui aderire: dopo anni in cui si è consentito al padronato di decidere quali sindacati legittimare è ormai indispensabile pensare a una norma realmente democratica che preveda l’abolizione delle normative anti-sciopero ed anti-sindacali, la cancellazione dei limiti di rappresentanza per le forze sindacali conflittuali, l’abolizione degli accordi capestro del 10 gennaio 2014, la libera eleggibilità dei rappresentanti dei lavoratori senza vincoli di sigla sindacale e l’obbligo di sottoporre a referendum realmente trasparenti gli accordi aziendali e di categoria.
Inoltre, è chiaro che è inutile parlare di salario minimo se non si contrasta l’utilizzo del lavoro precario e del part-time involontario, nonché di tutte quelle forme di flessibilità che condannano milioni di lavoratori a un’occupazione intermittente. Un salario di 12/13 euro nette l’ora non basta a sopravvivere se si è costretti a lavorare poche ore a settimana o saltuariamente. Figuriamoci uno di 9 euro l’ora lorde. Perciò per spezzare la spirale fatta di precarizzazione e competizione al ribasso tra lavoratori, vogliamo l’abrogazione di tutte le leggi che hanno favorito il dilagare dei contratti precari, dalle leggi Treu e Biagi fino al Jobs Act, con ripristino dell’art. 18, e l’estensione dello Statuto del lavoratori anche alle aziende al di sotto del 15 dipendenti, la revisione e l’unificazione delle categorie contrattuali con cancellazione di tutte le forme atipiche precarie, la revisione dei contratti di apprendistato. Il divieto di assumere nella medesima azienda lavoratori che svolgono la stessa mansione con forme contrattuali differenti. il deciso contrasto alle forme di lavoro autonomo fittizio che mascherano, In realtà, lavoro dipendente a vantaggio delle imprese, stabilendo per legge l’obbligo di assumere questi lavoratori con contratti di lavoro dipendente e, con il conseguente riconoscimento dei diritti connessi.
È poi fondamentale tutelare la sicurezza dei lavoratori e fermare la strage quotidiana nei luoghi di lavoro. Solo nell’ultimo quinquennio in Italia abbiamo avuto oltre seimila lavoratori morti. La politica istituzionale e le burocrazie sindacali confederali, si limitano a qualche frase retorica dopo i fatti più drammatici, come la recente strage di Brandizzo, senza fare nulla per risolvere il problema. Anzi, il governo Meloni nella bozza finale del nuovo accordo Stato-Regioni porta da 16 a 10 le ore di formazione per i lavoratori dei settori a rischio alto, un terzo in meno. Per contrastare la piaga degli omicidi sul lavoro occorre invece esattamente il contrario: più formazione; pene più severe per i padroni che non rispettano le norme di sicurezza; controlli a tappeto nelle fabbriche, nei magazzini, nei cantieri, e in tutti i luoghi di lavoro più a rischio, tramite l’assunzione di un numero congruo di ispettori per la sicurezza e la salute dei lavoratori; la possibilità di rivolgersi alla magistratura con procedura di urgenza, per ogni lavoratore che veda la propria azienda inadempiente in materia di sicurezza del lavoro.
Consideriamo, inoltre, necessari l’internalizzazione del lavoratori in appalto e il divieto di esternalizzazione dei servizi per le pubbliche amministrazioni e le imprese private. Un sistema malato quello dell’appalto e subappalto, che vede il lavoratore finale subire gli effetti nocivi, schiacciato tra il “grande padrone” (committente), nella maggior parte dei casi una multinazionale, e il “piccolo padrone” (appaltatore), piccola o media società. Un sistema in cui lo sfruttamento, la scarsa formazione, l’illecito e il ricatto occupazionale, trovano terreno fertile.
Come PC, poniamo un focus particolare sui più di 2 milioni di lavoratori della logistica, oggi settore cardine del Paese, pienamente dentro le dinamiche sopra citate. Riteniamo necessaria l’internazionalizzazione con una conseguente rappresentanza operaia all’interno della società madre e/o un radicale sistema di controllo con l’obiettivo di sopprimere, dove necessario, qualsiasi tipo di sfruttamento in capo alla compiacenza delle piccole e medie imprese o in alternativa un processo di transizione verso un vero e collettivo sistema cooperativo.
È quindi urgente anche una riforma del sistema cooperativo, tramutatosi oggi in uno degli strumenti di maggiore sfruttamento dei lavoratori. È ora di dire basta alle false cooperative guidate da imprenditori senza scrupoli che usufruiscono di aiuti fiscali e finanziamenti pubblici, a scopo di profitto. II sistema delle cooperative ha senso e valore solo a patto di un ritorno alla sua funzione e agli scopi originari.
Centrale, infine, è la lotta per contrastare la disoccupazione fino alla conquista della piena occupazione, con un lavoro dignitosamente retribuito per tutti, che corrisponda il più possibile alle capacità e alle aspirazioni degli individui e alle necessità della società nel suo complesso. Fino al raggiungimento di tale obiettivo, vogliamo l’innalzamento dei sussidi di disoccupazione per assicurare una vita dignitosa a chi è disoccupato indipendentemente dalla propria volontà, fino alla conquista di un’occupazione stabile. L’obiettivo della piena occupazione è assolutamente possibile con la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a 30 ore settimanali. II grande sviluppo tecnologico consente oggi di ridurre i tempi di progettazione, produzione e distribuzione di beni e servizi e deve essere usato a favore dei lavoratori e non contro di essi. Non si tratta di una proposta estremistica o utopica, già alcune grandi aziende in diversi Paesi hanno iniziato a sperimentare la riduzione dell’orario di lavoro settimanale a parità di salario con risultati sorprendenti nell’aumento della produttività, nell’ottimizzazione dei tempi e nell’indice di soddisfazione dei dipendenti.
Lavorare tutti, lavorare meno e vivere meglio.
Lungi dall’essere solo uno slogan è una possibilità concreta.
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