di Matteo Mereu, responsabile Lavoro Partito Comunista
La situazione di crisi economica di livello mondiale, aggravata dalla pandemia di Sars-Covid19, ha costretto la ridefinizione di politiche consolidate di austerity in ambito di welfare e di spesa pubblica, in particolar modo la revisione del ruolo e l’intervento degli Stati nell’economia. Per questo motivo, anche nell’area dell’Eurozona, a partire dalla Commissione Europea, sì è riaperto il dibattito sul salario minimo. E’ doveroso fare una premessa: quando il livello di tensione sociale cresce, le Istituzioni capitaliste, come l’Unione Europea, allargano le maglie e la “borsa” per stemperare una febbre che rischierebbe di travolgerle. Il modello di welfare state che ha retto in Europa occidentale fino alla fine degli anni ’90 in fondo è stata una “concessione” dei Governi borghesi alle classi popolari e lavoratrici per evitare di vedersi travolgere come è successo in altre parti del mondo dalle rivoluzioni socialiste. Venuto meno il blocco sovietico, è crollato anche quel sistema di garanzie e tutele sociali costruito negli anni, con la complicità delle sinistre liberali e socialdemocratiche.
Oggi assistiamo ad nuovo tentativo di annebbiare le coscienze di milioni di lavoratrici e di lavoratori, che, grazie alla crisi da Covid19, stanno cominciando a comprendere come agisce il capitale. Il dibattito sul salario minimo si inserisce in questo contesto, sia a livello europeo sia a livello comunitario.
La proposta di Direttiva 682/2020 avanzata dalla Commissione Europea attraverso il Commissario all’occupazione Nicolas Schmit (socialdemocratico lussemburghese) sul salario minimo va in questa direzione. Va ricordato che la Direttiva non ha caratteristica vincolante ma risulta essere una raccomandazione per quei paesi europei che, ad oggi non hanno ancora legiferato su questo punto come Italia, Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia. In particolare i Paesi Scandinavi sono contrari a intromissioni europee rispetto i propri standard di welfare state. L’obiettivo quindi non è quello di stabilire uno standard unico europeo, “ma indicare nella contrattazione collettiva nazionale la sede ideale per enunciare un processo di universalizzazione delle tutele salariali”. Se prendiamo ad esempio due Paesi leader europei come Germania e Francia vediamo che la soglia minima salariale fissata per legge (dati 2018) è pari a 1497,90 euro per i lavoratori tedeschi e 1498,80 euro per quelli francesi. Tuttavia, in quattro paesi fra il 10% e il 20% dei lavoratori non è coperto e in quasi tutti i paesi i salari minimi sono più bassi del 50% del salario lordo medio.
In Italia il dibattito sul salario minimo è partito tardivamente, rispetto invece a quello sul reddito minimo di cittadinanza. Per due ordini di motivi: perché il reddito minimo è stata immaginata come una misura non per garantire un diritto al lavoro ma come un sostegno ai consumi da una parte e dall’altra perché le organizzazioni sindacali confederali ritengono che si debba tutelare il sistema della Contrattazione nazionale collettiva e aziendale che già stabilisce dei minimi salariali a seconda della categoria.
Il Ddl Catalfo 658/18, avanzata dai parlamentari del Movimento 5 stelle, è un tentativo di indicare il salario minimo per legge anche in Italia, ma con delle evidenti difficoltà. La prima di queste criticità è che andrebbe a tutelare solo quel 10/15% dei lavoratori non tutelati e non coperti dalla contrattazione collettiva nazionale. La seconda, più evidente, è quella dell’importo, 9 euro/ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali. In ultima analisi si rischierebbe di attivare le gabbie salariali, individuando un modello valido a seconda del settore e delle zone nelle quali si eseguono le prestazioni di lavoro. Va richiamato a chi legge che i salari dei lavoratori italiani continuano ad essere tra i più bassi tra quelli europei. Inoltre il mancato rinnovo dei CCNL di molte categorie (dal pubblico al privato) non determinano quella garanzia che proprio la contrattazione collettiva nazionale dovrebbe fornire secondo i sindacati confederali.
Il Partito Comunista ritiene, in coerenza con quanto proposto nel programma elettorale presentato in occasione delle elezioni politiche del 2018, che il salario minimo stabilito per legge non solo sia una necessità ma anche una condizione di base per garantire alle lavoratrici e ai lavoratori italiani condizioni economiche degne. Per questo la proposta del Partito prevede un salario minimo intercategoriale di 10 euro/ora per ogni tipologia e settore di lavoro e di 11,5 euro/ora per i lavori usuranti, con possibilità di deroga ai contratti collettivi nazionali e aziendale, e si inserisce in un quadro più ampio che va dal reale riconoscimento della parità salariale uomo/donna, dalla riduzione dell’orario settimanale a 32 ore e con il ripristino della scala mobile.