di Maria Grazia Pippia
Il Covid 19 ha messo in luce la grave condizione della sanità pubblica in Sardegna, che tristemente si classifica al terz’ultimo posto tra le regioni italiane.
Per effetto dei ripetuti tagli delle Giunte regionali che si sono succedute, le strutture ospedaliere sono passate da 28 a 25 nel giro di pochi anni e circa 500 posti letto sono andati perduti. Una contrazione che, di fatto, riesce a garantire cure solo al 56 per cento della popolazione e che costringe 14 mila sardi a farsi curare fuori dall’isola, con una conseguente spesa di 82 milioni di euro annui a carico della Regione. Va addirittura peggio per un ulteriore 9,2 per cento di abitanti, costretti a rinunciare alle cure per mancanza di mezzi economici.
Ben diversa la situazione nel settore sanitario privato per il quale, al contrario, la Regione non ha difficoltà a reperire fondi, come dimostrano i 150 milioni di euro elargiti alla clinica Mater Olbia. Soldi gettati al vento, verrebbe da pensare, dato che alla chiamata del governatore Cristian Solinas per l’emergenza sanitaria, i vertici della clinica hanno risposto picche in quanto sprovvisti degli strumenti necessari ad ospitare pazienti affetti dal virus.
Ma se per la Sanità pubblica la Sardegna veste la maglia nera, altrettanto non si può dire per il settore della Difesa. Fin dagli anni ’50, il demanio militare ospitato sull’isola costituisce il 60 per cento del territorio nazionale destinato alle servitù militari e occupa il 4 per cento delle coste, che sono state rese inaccessibili ai civili. E nonostante nel 2008 la base statunitense della Maddalena sia stata smantellata, la Sardegna continua ad avere un ruolo centrale nel Mediterraneo, per l’Italia e per la NATO. Sull’isola si svolgono, su base annuale, l’80 per cento dei test con esplosivo e cospicue risorse pubbliche vengono allocate per implementare le basi militari e il mercato degli armamenti.
E mentre la politica di regime spende enormi quantità di denaro pubblico per i campi base, raccontandoci la barzelletta che questi garantiscono posti di lavoro, interi settori dell’economia sarda (allevamento, agricoltura, turismo) ricevono pochi spiccioli.
A contraddire la narrazione “basi militari uguale occupazione” è la realtà di Quirra, una regione storica della Sardegna centro-orientale dove ha sede il Poligono. Ebbene, su quel territorio ad alto tasso di emigrazione lavorano meno di mille persone, tra civili e militari. A tutto ciò si affianca il problema ecologico che si riscontra nei pressi dei campi base, dove interi territori sono avvelenati dai metalli pesanti e dal materiale radioattivo, dove i capi di bestiame si ammalano o nascono con malformazioni e dove la popolazione, civile e militare, corre il forte rischio di ammalarsi di tumore. Un disastro di vaste proporzioni che ha messo nei guai i vertici del Poligono, attualmente a processo presso il tribunale di Lanusei.
Tuttavia, la politica asservita al potere continua a finanziare le basi militari, ritenute indispensabili per la difesa del Paese nonostante l’esercito italiano sia, di fatto, ridotto a ganglio del sistema militare U.S.A., come dimostrano le varie missioni definite “di pace”, ma in realtà finalizzate al massacro delle popolazioni locali, civili compresi.
Da Comunisti denunciamo con forza le scelte di una politica, che con una mano taglia la Sanità pubblica e con l’altra foraggia il rinforzo degli armamenti e rivendichiamo un sistema sanitario funzionante, fruibile da tutti e non votato alla logica del profitto.
Solo il socialismo può gettare le basi etiche, affinché tutto ciò possa essere realizzato.
Anche per questo saremo in piazza il 2 giugno