I venti di guerra
In questo recente periodo la trepidazione di ogni persona che segue anche distrattamente la politica internazionale è causata dai venti di guerra che stanno scuotendo il mondo.
In occidente siamo stati abituati da decenni a vedere le guerre come qualcosa di lontano che ci poteva toccare solo marginalmente ma mai che potesse sconvolgere realmente le nostre vite. Il senso di falsa sicurezza veniva istillato al cittadino europeo dall’appartenenza a un’alleanza militare e a un’alleanza politica che sembravano inattaccabili: la NATO, guidata dagli USA, la più formidabile potenza che l’umanità abbia mai conosciuto, e l’Unione Europea, una rassicurante zona di sicurezza economica, guidata dalla Germania. Questa è stata la narrazione che ha cullato i cittadini europei, prima e soprattutto dopo il crollo del socialismo in Europa. Le crisi economiche erano sminuite e viste come passeggere e le crisi militari come colpi di coda di un vecchio mondo che stentava a dissolversi definitivamente, come per esempio, la crisi jugoslava degli anni ’80, le guerre nel Caucaso, la irrisolvibile crisi in Medioriente. Il declino inesorabile dell’Italia non veniva percepito dai più come ineluttabile, ma anzi come una fase che, dopo aver fatto i “compiti a casa” prescritti dall’Unione Europea, ossia rimesso a posto i conti economici, avrebbe riammesso il nostro Paese a pieno titolo nella alta classifica di quello che impudentemente Borrell ha definito “il giardino fiorito” del mondo.
Gli ammonimenti dei comunisti, memori degli immortali insegnamenti di Lenin sull’ineluttabilità dell’aggressività ed espansionismo del capitalismo monopolistico, non trovavano molto ascolto nella vasta opinione pubblica europea. Anzi, tali foschi presagi venivano per lo più visti come una sterile nostalgia degli “sconfitti della storia”.
Oggi, dopo la pandemia, gli eventi in Ucraina e più recentemente in Palestina, tutto è cambiato. Anche il cittadino più distratto si rende conto che qualcosa non funziona più.
L’antefatto è stato fornito dalla pandemia. Gestione fallimentare, spese folli e secretate, bugie su bugie circa gli effetti miracolosi di protezione che una nuova arma generata dalle avveniristiche ricerche della magnifica Isola della Conoscenza e della Virtù potevano difendere i cittadini, senza che questi avessero bisogno di una sanità pubblica e di prossimità, che peraltro cadeva a pezzi. Il popolo, con alcune generose eccezioni, si accodava, ma dopo una serie di “dosi” dell’elisir di lunga vita, si fa largo anche nei più distratti l’idea di essere caduti nel tranello di imbonitori di quarto ordine. L’accusa che accompagnava questo impianto propagandistico, cioè che il virus fosse stato generato ad arte dalla Strega Cattiva, ossia dalla Cina, evaporava anch’essa insieme alla credibilità degli imbonitori. Alla Cina venivano anche attribuite tutte le cause dei guasti delle nostre economie: concorrenza sleale, mancato rispetto dei “diritti umani”, e tutta la litania che purtroppo conosciamo.
Poi è arrivata la vicenda ucraina. Anche qui ci siamo da una parte i Buoni per definizione e l’irredimibile Orco Cattivo dall’altro. Però la Russia, che doveva essere sbaragliata e punita per il suo sacrilego attentato all’ordine internazionale univocamente regolato dalla cosiddetta “comunità internazionale”, ossia in realtà quel pugno di nazioni assoggettate agli USA, non solo è viva e vegeta, ma sta sconfiggendo il tentativo più massiccio di sovversione messo in atto contro di essa. Allora la narrazione muta da rassicurante ad allarmistica, evocando il rischio di vedere scorrazzare i cosacchi a Piazza San Pietro e invocando l’aumento vertiginoso delle spese militari. Anche qui miliardi a profusione, anche questi per la maggior parte secretati, buttati nel pozzo senza fondo della fame di profitto delle multinazionali. Il camice rassicurante del ricercatore che ci protegge dalla malattia ora è sostituito dalla divisa rassicurante del soldato che difende i nostri confini.
Poi l’impensabile. I Buoni per eccellenza, coloro ai quali la Storia deve tutto per quanto male hanno subito, vengono attaccati proditoriamente e malvagiamente da Diavoli usciti dall’inferno. E i Buoni, si sa, hanno tutto il diritto di difendersi con ogni mezzo. Anche qui la narrazione è fiabesca: come la storia in Donbass comincia nel febbraio 2022, anche in Palestina comincia il 7 ottobre del 2023. Cause, complessità, torti storici tutto viene oscurato dagli orrori subiti dai “nostri”.
Sarebbe necessaria un’intera ricerca per analizzare la parzialità dell’informazione di regime che ha investito i nostri Paesi, dalla televisione alla carta stampata a internet. Chiamarla propaganda sarebbe già nobilitarla.
Però ora anche il più distratto si rende conto che la Strega, l’Orco e i Diavoli radunano quei 5/6 dei paesi che sono stufi di subire le angherie dell’Egemone, che è più pericoloso essere amici degli USA che suoi nemici, che alla fine il conto lo stiamo sempre e solo pagando noi europei.
I nodi vengono al pettine, purtroppo non prima che si siano toccate le tasche dei cittadini europei, ma già qualcuno lo ha detto: l’uomo è quello che mangia, prima di essere quello che pensa.
In particolare, il cittadino medio italiano si trova in un paese in cui i redditi non crescono da trent’anni e, dopo i due anni di inflazione dovuta alla crisi pandemica, il potere d’acquisto è sprofondato; si trova a pagare l’energia elettrica e per i trasporti molto di più; le attività produttive chiudono una dietro l’altra, sia le piccole artigiane e commerciali che i grandi distretti industriali. D’altro lato spesso i salari sono così bassi e gli orari di lavoro così frammentati che non conviene proprio accettare un lavoro dal quale non resta niente. Ciò contribuisce a distruggere ulteriormente il mercato del lavoro anche in presenza di un’offerta di manodopera irregolare che abbassa ulteriormente le condizioni di lavoro medie.
La protesta dei contadini ne è un esempio evidente. I prezzi al dettaglio dei beni agroalimentari sono aumentati mentre il prezzo pagato ai produttori diminuisce, mettendo fuori mercato intere filiere produttive. I prodotti tradizionali ed eccellenti dell’agricoltura europea vengono sostituiti da prodotti scadenti importati dalle multinazionali. In verità non sono prodotti da contadini indipendenti dei paesi extraeuropei, ma da multinazionali che hanno saccheggiato i terreni e ora producono a prezzi inarrivabili per il produttore europeo. Quindi la forza delle multinazionali agisce da due lati, dal lato del produttore abbassando i prezzi con prodotti scadenti e frutto di dumping salariale, e dal lato del distributore col predominio della grande distribuzione che impone i suoi prezzi.
La classica valvola di sfogo che era costituita dall’emigrazione italiana si è bloccata e ora, a causa della crisi degli altri paesi europei e anche delle leggi più restrittive in Gran Bretagna dopo la brexit, molti ritornano nel nostro paese.
La vicenda dei pannelli solari
Anche i settori produttivi europei più tecnologici non sfuggono alla crisi. Un esempio su tutti è la politica di transizione energetica, promossa dall’Unione Europea e destinata a cambiare radicalmente il parco auto europeo. Seguiamo questo percorso che ci aiuterà a entrare nel merito del discorso principale che svilupperemo in questo articolo.
Si comincia con l’alimentare il panico rispetto ai disastri che l’improvviso aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera causa rispetto all’innalzamento delle temperature medie globali. La soluzione viene vista univocamente nella sostituzione delle auto a combustione interna (benzina, diesel) con le auto elettriche. L’Unione Europea comincia a programmare di mettere fuori commercio e successivamente fuori circolazione milioni di veicoli tradizionali. Per chi ha dimestichezza del pensiero economico marxista, si tratta di distruzione di forze produttive e ripartenza su livelli di produzione più ristretta ma più profittevoli. Le grandi case produttrici europee già si apprestano al grande salto. Centri di ricerca creano modelli economici per dimostrare che la transizione sarà una grande occasione per tutta l’Europa che uscirà finalmente dalla decennale crisi dell’auto, o meglio della sua enorme sovraccapacità produttiva. Il fatidico milione di vetture da produrre in Italia per restare competitivi sembra raggiungibile. Per far partire un mercato ancora dubbioso si prospettano incentivi economici in grado di allargare la base produttiva e far scendere rapidamente i costi.
Naturalmente, dimenticando tutto il contesto esterno, questa sostituzione non può portare a nulla di buono. Pur mettendo da parte le considerazioni riguardanti la scienza del clima, che esulano dalla presente trattazione e limitandosi alle esclusive considerazioni di carattere economico e produttivo, si dovrebbe valutare prima la capacità della rete elettrica nazionale, la capacità di approvvigionamento delle materie prime e la capacità di smaltimento dei prodotti esausti. Poi si dovrebbe valutare la reale sostenibilità per il cittadino di affrontare un costo di un’autovettura che sia alla portata delle proprie capacità, soprattutto in un momento di crisi economica. Tutti questi passaggi sono stati elusi davanti al miraggio di investimenti miliardari e ritorni di profitti stratosferici, dovuti a una vendita per quanto inferiore nel numero di autovetture, ma con tasso di profitto unitario molto più elevato. Meno auto, più costose e più dipendenti dai servizi di assistenza centralizzati.
Se manca una programmazione globale e l’unico obiettivo dei centri di ricerca è redigere piani che siano graditi al committente, il risultato è quello di credere alla propria stessa propaganda scambiandola per realtà. I ricercatori sono osannati, i capitali affluiscono copiosi. È come se partisse per un viaggio con una mappa del territorio frutto non di un esame oggettivo e impietoso della realtà, ma di una narrazione fiabesca. Al primo ostacolo ci si rende conto che i programmi sono sbagliati e non si è tenuto conto dei reali problemi ma solo dei propri desideri.
Eppure l’esperienza della vicenda dei pannelli solari avrebbe dovuto far suonare il campanello d’allarme. Allora ci si imbarcò in una produzione senza avere una solida filiera produttiva. La produzione internazionale, soprattutto cinese, seguì la richiesta del mercato e rapidamente è riuscita a sbaragliare la concorrenza, grazie a economie di scala, innovazione tecnologica, prodotti differenziati per gamma di prestazione e costo. La Cina domina il settore della produzione di pannelli fotovoltaici in ogni anello della catena di approvvigionamento. Un risultato ottenuto con un investimento complessivo di oltre 50 miliardi solo in nuova capacità. Una spesa più di dieci volte a quella degli Stati membri dell’Unione Europea.
“Dal 2011 la Cina ha creato più di 300.000 posti di lavoro lungo la catena del valore del solare fotovoltaico”, si legge nel rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (Iea) [1], secondo la quale “la quota della Cina in tutte le fasi di produzione dei pannelli solari (come polisilicio, lingotti, wafer, celle e moduli) supera l’80%. Inoltre, il Paese ospita i 10 principali fornitori mondiali di apparecchiature per la produzione di impianti solari fotovoltaici”. Si legge ancora che nel 2021, il valore dell’export fotovoltaico ha superato i 30 miliardi di dollari, “quasi il 7% del surplus commerciale della Cina negli ultimi cinque anni”. “Le politiche industriali cinesi hanno consentito economie di scala e sostenuto l’innovazione continua lungo tutta la catena di approvvigionamento. Queste politiche hanno contribuito a una riduzione dei costi di oltre l’80%, aiutando il solare fotovoltaico a diventare la tecnologia di generazione di elettricità più conveniente in molte parti del mondo”.: “I costi in Cina sono inferiori del 10% rispetto all’India, del 20% rispetto agli Stati Uniti e del 35% rispetto all’Europa”.
Per questo oggi è la Cina è più competitiva in termini di costi per la produzione di tutti i componenti della catena di fornitura del solare fotovoltaico, non per le miserabili scuse accampate in occidente.
Questi risultati sono il frutto di una strategia industriale avviata più di dieci anni fa, che hanno portato la Cina a essere in grado di produrre molti più pannelli di quanti ne servano oggi alla sua industria e alla sua economia visto che la sua domanda pesa per poco più del 35% sulla domanda globale. L’Europa si trova nella situazione opposta: la domanda Ue di pannelli solari vale quasi il 17% nel mercato globale ma la sua quota di produzione non arriva a coprire il 3% di quella mondiale. Tra il 2010 e il 2021 Pechino è riuscito a portare la sua offerta complessiva dal 55% all’84%. Per dare l’idea di quanto la tardiva programmazione di Bruxelles sia irrealistica, in soli sette anni ci si sta prefiggendo una conquista di quote di mercato maggiore rispetto a quella ottenuta dalla Cina in undici anni, avendo investito per ora solo un decimo dei sussidi messi a disposizione dal Dragone alle sue imprese.
Un altro punto essenziale, ancora sottolineato dalla IEA è il seguente. “Inoltre, gli investimenti cinesi in Malesia e Vietnam hanno anche reso questi paesi i principali esportatori di prodotti fotovoltaici, rappresentando rispettivamente circa il 10% e il 5% dei loro surplus commerciali dal 2017”. Cosa che ci fa capire qual è l’atteggiamento globale degli investimenti cinesi che, anziché desertificare l’economia dei paesi con cui collabora, come fanno gli occidentali da secoli, si propone come motore per il loro sviluppo.
La vicenda dell’auto elettrica
E veniamo ora alla più recente vicenda dell’auto elettrica.
Cominciamo ricordando che in una vettura elettrica il 40% del costo totale è rappresentato dalle batterie ed un altro 40% circa dal software. La Cina dapprima ha creato la catena del valore.
Negli anni passati gli imprenditori cinesi, dopo aver acquisito le concessioni minerarie nei paesi produttori di nichel, cobalto e litio, hanno innovato la loro tecnologia per costruire le batterie di nuova generazione acquisendo il know-how. Inoltre al momento la Cina è all’avanguardia al mondo nella produzione delle future batterie al sodio, meno costose e meno inquinanti di quelle al litio. La casa automobilistica cinese BYD ha superato la Tesla come quota di mercato globale e prima casa automobilistica in Europa, in assoluto, per automobili vendute. Infine, la Cina è all’avanguardia anche nell’ultimo tassello della catena del valore: il riciclo. Qui le menzogne occidentali non trovano proprio spazio per calunniare la Cina. Della capacità mondiale di riciclo delle batterie, circa 200.000 tonnellate nel 2021, grosso modo la metà veniva effettuata in Cina.
La situazione di svantaggio per l’occidente si aggrava considerando i progressi che i cinesi stanno facendo con lo studio ormai in fase di attuazione nella città di Pechino delle vetture a guida autonoma, nonché la programmazione di una flotta di 8 mercantili da 7mila automobili di cui il primo già varato, la BYD Explorer No. 1, che a fine febbraio ha scaricato le prime 3mila vetture a Bremerhaven, in Germania.
Il predominio cinese quindi come si vede è il risultato di un ottimo rapporto qualità/prezzo dei loro prodotti, ottenuto con un saggio mix di economie di scala, enormi investimenti fatti da lungo tempo nel settore, forte competizione all’interno del paese dove ci sono decine e decine di produttori di auto elettriche, al contrario della concentrazione monopolistica che avviene in occidente e che ha distrutto la concorrenza tra i produttori, e una capacità produttiva nazionale molto alta che riesce a sostenere tutte le precedenti funzioni.
La capacità di programmazione e di visione della Cina si può trovare esemplificata nel fatto che ha preso la decisione strategica di dare priorità ai veicoli elettrici già nel 2009, quando il mercato era ancora praticamente inesistente, con il “Piano di adeguamento e rivitalizzazione dell’industria automobilistica”, ma avendo già intuito il mercato dove sarebbe andato.
La risposta occidentale è desolante. Si riesce solo a calunniare la Cina di violare le regole del libero mercato con sostegni pubblici (che in verità nessuno impedisce ai nostri paesi di attuare, ed anzi che attuano quando si tratta di salvare le banche dagli effetti loschi traffici in cui si invischiano), di sfruttamento della manodopera (quando in Cina ormai le remunerazioni salariali hanno raggiunto lo stesso livello che da noi a parità di potere d’acquisto, come dimostra che ormai le delocalizzazioni hanno preso la strada di altri paesi asiatici, come il Vietnam che si è incamminato sulla stessa strada di successo della Cina).
Nel report del Kiel Institute [2] si legge: «il 99% delle società cinesi quotate in Borsa hanno ricevuto sovvenzioni governative dirette nel 2022». Questi sussidi, «spesso impiegati in modo strategico per far progredire le tecnologie chiave, fino a renderle pronte per il mercato». Inoltre nel report si lamenta la combinazione con altre misure di sostegno, come l’accesso preferenziale alle materie prime essenziali, il trasferimento forzato di tecnologia da parte degli investitori stranieri e il trattamento privilegiato negli appalti pubblici e nelle procedure amministrative. Cioè si accusa la parte pubblica cinese di fare bene il suo mestiere, di far agire quella che è la “mano visibile” per sostenere e far prosperare il mercato che poi agisce secondo le proprie regole attraverso quella che Adam Smith definì la “mano invisibile”, ossia la allocazione ottimale delle risorse. Si lamenta di come, «le aziende cinesi sono rapidamente cresciute in vari settori della tecnologia verde, dominando il mercato interno e penetrando sempre più nei mercati della Ue». Cioè si accusa la Cina di stare giocando con regole del mercato meglio di coloro che le hanno avrebbero inventate. E quindi quando la squadra non trova più la convenienza a giocare con le regole che essa ha imposto, le denuncia e si appella a un preteso fair play per cambiarle a suo favore. I monopolisti occidentali demonizzano il libero mercato e la concorrenza.
Lo stesso Kiel Institute però si rende conto che l’occidente ormai è in trappola. Secondo Dirk Dohse, co-autore del report, «la politica delle sovvenzioni di Pechino è una questione controversa: le industrie europee spesso faticano a competere. Tuttavia, senza la tecnologia sovvenzionata dalla Cina, anche prodotti chiave per la transizione verde della Germania diventerebbero più costosi e scarsi».
Infatti, l’unica soluzione prospettata dalle ottuse politiche occidentali è quello di minacciare sanzioni e dazi. Questi però, com’è noto, sono un’arma a doppio taglio per due motivi fondamentali. Intanto le case automobilistiche occidentali producono e vendono in Cina una parte molto consistente del loro totale, derivando in loco la maggiore quantità dei loro profitti, mentre hanno anche stretto diverse joint venture con le case automobilistiche cinesi.
La vicenda del fotovoltaico e dell’auto elettrica sono solo due esempi di come l’industria cinese è in grado di soverchiare l’industria occidentale in moltissimi settori di attività. Chiudersi a questa realtà significa aggravare la situazione. Bloccare l’ascesa della Cina, trincerandosi dietro barriere protezionistiche, dopo averle fatte cadere in tutto il mondo è un esercizio vano e dannoso principalmente per chi lo mette in atto. Le sanzioni colpirebbero anche le case produttrici europee. Analogo discorso vale per gli USA che con i dazi dovrebbero aumentare drammaticamente i costi delle importazioni dalla Cina, da cui la produzione e il consumo degli USA sono fortemente dipendenti. Il cosiddetto decoupling, ossia lo sganciamento dall’economia cinese per l’occidente è del tutto improponibile, mentre la Cina, che ha diversificato i suoi mercati e soprattutto creato un mercato interno fortemente in crescita, potrebbe fare a meno dell’intero occidente.
Cosa ha fatto la Cina
Come siamo arrivati a tutto questo in pochi decenni.
Guardiamolo prima dalla parte della Cina e poi dell’occidente.
La Cina, dopo l’inizio della politica di apertura inaugurato alla fine degli anni ’70, ha studiato bene i punti di forza e di debolezza dell’avversario. Unendo gli insegnamenti metodologici del marxismo e quelli millenari della sua storia, è riuscita in un’impresa che sembrava impossibile: usare la forza dell’avversario contro di esso, studiare e acquisire i punti di forza di quello e rendersi così invulnerabile al nemico. Questi ora si trova nelle condizioni per cui usare ancora di più la sua forza economica e militare porta solo al suo indebolimento. Si tratta in sostanza di usare gli elementi più utili del mercato e gli strumenti che agiscono attraverso di esso per rafforzare il sistema socialista.
Il punto teorico cruciale è il seguente. Com’è possibile usare gli strumenti del nemico senza farsi fagocitare e assoggettare da esso? Per parafrasare la frase che si diceva ai tempi di Cristoforo Colombo “cercare l’Oriente andando verso occidente”. Creare, cioè, un mix di programmazione saldamente guidata centralmente con un sistema di allocazione delle risorse ottimizzata attraverso il mercato. Naturalmente il mercato è un ambito, un luogo, non un sistema. Sono gli attori che giocano all’interno di esso che ne determinano le caratteristiche. Nell’economia cinese coesistono due forme di proprietà, quella statale e quella privata, che agiscono insieme e in sinergia nel mercato.
Non è la prima volta nella storia che si assiste a forme di condivisione di potere tra classi dominanti. Per esempio in Inghilterra e in Francia si è assistito a lunghi periodi di scontri tra monarchia, aristocrazia e borghesia che hanno alternato furiose lotte a compromessi. In Unione Sovietica il periodo della NEP ha caratterizzato la presenza di un settore privato, ancorché fortemente minoritario, ma anche una lunga condivisione di potere tra operai e contadini. In Italia abbiamo assistito durante gli anni ’70 a un intervento in economia delle cosiddette “Partecipazioni statali” che hanno visto una forte presenza dei capitali pubblici in settori strategici e non, cosa che ha creato le condizioni di sviluppo impetuoso della piccola e media impresa che altrimenti non avrebbe avuto né i capitali né la taglia per svilupparsi. Anche le economie governate dai regimi nazisti e fascisti vedevano un forte indirizzo politico governativo.
Questi esempi tra di loro sono estremamente eterogenei. La condivisione di potere tra aristocrazia e borghesia è durata per secoli, mentre gli altri solo qualche decennio. La NEP ha coinvolto solo settori marginali e non ha consentito di realizzare un’accumulazione capitalistica in grado di mettere in discussione la direzione politica del Partito bolscevico. In Italia si è potuto godere di un relativo spazio di manovra politico a causa del particolare ruolo che questo paese svolgeva nell’ambito della Guerra Fredda; infatti, non appena quel ruolo è venuto meno, tutti i risultati conseguiti attraverso la programmazione economica sono stati rovesciati. I regimi nazifascisti hanno realizzato la direzione politica attraverso la più spietata compressione terroristica dei diritti dei lavoratori.
Quello che è accaduto in Cina in questo mezzo secolo non ha paragoni di sorta e quindi a nostro parere gli va riconosciuto uno status teorico del tutto originale. Anche il paragone con la NEP sovietica non è calzante a causa delle normi differenze di entità temporale e di profondità economica.
Come il Partito Comunista di Cina ha riconosciuto, le basi dello sviluppo attuale risiedono sia nella prima fase dopo la Fondazione della Repubblica Popolare, quando si assicurò l’indipendenza politica ed economica della nazione e della sua economia, sia nel periodo dell’Apertura e Riforme, quando si saggiarono i primi esperimenti della nuova forma di socialismo con caratteristiche cinesi. Quello a cui stiamo assistendo oggi da dieci anni a questa parte è qualcosa di nuovo, ma che affonda le radici nel recente passato, ma anche in tutta la storia della Cina, volendo ricordare la capacità organizzatrice centralizzata dell’Impero.
Nelle società si assiste sempre a una compresenza di rapporti di produzione. Non è mai esistita una società in cui ci fosse un solo rapporto di produzione. Anche la società capitalistico-monopolistica attuale vede la presenza di lavoro autonomo non capitalistico. Anche nell’Unione Sovietica dei Piani Quinquennali vi era un limitato settore cooperativo, specialmente nelle campagne ma anche in città, un sistema di retribuzione del lavoro che prevedeva incentivi materiali e una distribuzione dei prodotti finali al mercato e dei prodotti semilavorati tra le aziende che era regolato secondo la legge del valore.
In che cosa quindi si contraddistingue fondamentalmente il socialismo con caratteristiche cinesi dalle altre forme sociali? Possiamo dire che è la direzione politica del Partito Comunista che assicura continuità e saldezza di visione nel percorso intrapreso.
Cosa ha fatto l’Occidente
Vediamo ora invece cosa è successo in Occidente.
Subito dopo la Seconda Guerra mondiale il capitalismo occidentale ha avuto bisogno di darsi una forte centralizzazione. Questo è avvenuto in Italia, come abbiamo ricordato, ma anche in Gran Bretagna, e persino nel centro del capitalismo monopolista finanziario, gli Stati Uniti. Per esempio, l’aliquota massima sulle tasse di successione (top inheritance tax rate) dal 1900 al 2010 per U.S., U.K., Francia e Germania dal 1940 al 1980 si aggirava intorno all’80 percento, mentre dopo è crollata al 60 percento e ora siamo sotto la metà, intorno al 40 percento [3]. In Gran Bretagna il governo del dopoguerra guidato dal Partito Laburista è stato contrassegnato dall’inaugurazione del sistema di Sanità Pubblica. Durante la Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti avevano una capacità produttiva più che doppia rispetto alla somma di quella della Germania nazista e del Giappone militarista. Come termine di paragone, oggi la Repubblica Popolare Cinese ha duecento volte la capacità cantieristica statunitense.
Sono tanti gli esempi che si possono portare per dimostrare che i sistemi capitalistici, quando vogliono e ne hanno necessità, sono in grado di agire sulla leva pubblica azionando pesantemente la “mano visibile”.
Cosa è successo da allora?
Già il presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower, nel suo discorso d’addio alla nazione del 17 gennaio 1961, avvertiva del pericolo implicito agli accordi segreti fra potere politico, industria bellica e militari. Da allora sul piano inclinato si è scivolati sempre di più. Il potere politico, da committente pubblico, si è trasformato in un semplice esecutore di ordini che vengono presi dai magnati dell’industria bellica, con la complicità dei vertici militari che vedono così accresciuta la propria influenza. Si è arrivati al paradosso che nelle commesse militari non conta più l’efficienza delle innovazioni, ma solo l’elevato costo che essi comportano, con un rovesciamento tra costo ed efficacia.
Il bilancio della difesa è tre volte quello cinese, ma la capacità di condurre una attività bellica prolungata è messa alle corde da risorse in uomini e mezzi insufficienti. Le prime 100 aziende nel mondo che producono prodotti bellici fatturano 597 miliardi e fino al quinto posto sono aziende Usa: Lockheed Martin, Raytheon Technologies, Northrop Grumman, Boeing e General Dynamics. Non si spiega altrimenti che il nerbo delle forze armate NATO si sia concentrato sempre più su sofisticatissimi strumenti che stanno rivelando la propria inadeguatezza nella prima vera prova bellica in Ucraina, e non rispetto a eserciti di gran lunga inferiori, come fu in Libia e prima in Iraq.
Discorso analogo andrebbe fatto per valutare quali sono le capacità di azione diplomatica delle Cancellerie occidentali. L’epoca dei grandi e autorevoli statisti è tramontata da tempo. Ora il livello è tanto basso da essere imbarazzante. La gara attuale tra due ottuagenari per la Presidenza degli Stati Uniti ne è una plastica immagine.
Questo trova origine anche e soprattutto nel sistema educativo statunitense che è completamente allo sbando. Gli Stati Uniti stanno subendo il sorpasso della Cina in termini di popolazione altamente istruita e dipendono dall’importazione di cervelli. Negli USA il 43% dei dottorati nelle discipline Stem ha origini straniere. Questo richiama alla mente una delle cause che si suppone provocarono la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, ossia l’“esternalizzazione” della base più importante del potere politico-militare e sociale: allora era il legionario, che sempre di più fu arruolato fuori dalle popolazioni italiche, oggi è il dottore di ricerca.
Ciò si riflette direttamente sulle capacità di elaborazione anche solo concettuale delle classi dominanti e dei laboratori che dovrebbero elaborare progetti, visioni, strategie. Come si diceva all’inizio di questo articolo, i moderni legionari intellettuali non sono interessati a salvaguardare l’impero, ma a proteggere e magari aumentare il proprio salario mensile. Si allevano una schiera di “yes-man” che scambiano per realtà la propaganda che il proprio sistema ha diffuso per tenere buone le masse.
Come nota Federico Petroni nell’ultimo numero di Limes [4], “La cieca fede nel trittico tecnologia-capitalismo-democrazia ha generato atteggiamenti di negligenza o tracotanza tali da atrofizzare pensiero strategico e arte di governo.” “Anche solo programmare è diventato impossibile.”
Quos vult Iupiter perdere dementat prius, recita una locuzione latina. “Giove, a coloro che vuole rovinare, toglie prima la ragione”.
SERVIRE IL POPOLO
Nell’ampio spazio all’aperto del campus dell’Università del Popolo di Pechino vi sono due iscrizioni scolpite nella pietra intorno alle quali ruota la vibrante attività accademica. La prima recita SERVIRE IL POPOLO, la seconda IMPARARE DAI FATTI. Ogni cittadino cinese sa chi ha detto la prima e chi ha detto la seconda. Ogni cittadino cinese sente che su quelle due frasi scolpite sulla pietra si sta costruendo il presente e il futuro del proprio popolo e da lì passeranno le sorti dell’intera umanità.
Perché queste due frasi possono plasticamente racchiudere il senso della differenza tra l’Occidente e la Cina?
La prima ci dice cosa fare, la seconda come.
La prima. SERVIRE IL POPOLO. Tutto il potenziale della società deve essere indirizzato verso un obiettivo: innalzare e condizioni di vita materiale e spirituale del popolo, di tutto il popolo.
Sono tante le filosofie e le fedi religiose in occidente che proclamano l’eguaglianza come bene inalienabile. Le diseguaglianze che le società reali creano tra gli uomini sono viste per lo più come un passaggio momentaneo, uno strumento per poter davvero conseguire la eguaglianza tra tutti gli uomini. Naturalmente ciò non può essere conseguito se non nella libertà, ossia nel rispetto delle differenze che gli uomini hanno gli uni con gli altri. Uguaglianza non significa uniformità, ma godere tutti degli stessi diritti. Ebbene, possiamo dire che dopo secoli di feudalesimo e quattrocento anni di capitalismo, le nostre società non solo sono lontanissime da quegli ideali, che peraltro informano le Carte Costituzionali di tutte le nazioni, ma da essi se ne allontanano sempre di più. Non sono solo le crude statistiche che ce lo dicono. È la vita che si conduce nelle nostre città e ancor più in quello che resta delle nostre campagne ad esserne testimone. La precarietà del lavoro fino alla disperazione, il welfare allo sfascio, le sacche di povertà estrema che si allargano accanto a uno sfoggio di opulenza fuori di ogni misura. Davvero sembra di danzare sulla tolda di un transatlantico che sta affondando.
La disgregazione sociale nelle nostre nazioni è arrivata a un punto di non ritorno. Il crollo delle competenze culturali inarrestabile. E in quel transatlantico che sta affondando i più furbi cercano di costruirsi la zattera migliore nell’idea malsana di poter continuare illimitatamente il proprio status. La politica statunitense ondeggia paurosamente tra una chiamata alle armi contro tutto quello che loro non considerano la “comunità internazionale”, ossia i 5/6 del mondo e miopi forme di cannibalismo sociale e economico. Il mostruoso deficit commerciale degli USA (e della Gran Bretagna) si fonda sul predominio del dollaro (e della sterlina) che finora ha comprato dal resto del mondo tutto quello che le serve pagando in moneta che ha valore solo fin quando il predominio politico-militare glielo permetterà.
Finora la Germania (e noi italiani con essa) ne ha approfittato scaricando il proprio enorme surplus produttivo, ma ora i costi di questo sistema sono insostenibili. Interruzione delle catene produttive e delle linee energetiche, delocalizzazione delle imprese negli USA a causa di costi esorbitanti in Europa e incentivi negli USA (Inflation Reduction Act), che nessuno si sogna di additare come contrari al libero commercio. Imposizione di strumenti a esclusiva convenienza statunitense per quanto riguarda il budget farmaceutico e oggi il budget militare. La classe politica europea è così imbelle, corrotta, ricattabile, incapace da non riuscire neanche a pensare di opporsi anche in minima parte a questo diluvio.
Sullo scacchiere del Pacifico si continua a provocare, contro ogni diritto internazionale, la Cina e interferire sulla questione di Taiwan. Si trascina sul crinale del disastro il pezzo orientale della “comunità internazionale”. Incredibile come anche da quella parte del mondo nazioni potenti economicamente, e oggi di nuovo militarmente, come il Giappone non siano in grado di far valere i propri interessi.
Stessa situazione in Palestina. Il principale alleato nell’intera regione, Israele, subisce una sconfitta diplomatica epocale. La necessità dello stato di Palestina ormai è una urgenza che non può essere rimandata. La nascita di quello stato significherà, se le parole corrisponderanno ai fatti, alla rimozione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, ossia il rimpatrio di 800 mila coloni armati e furiosi che si riverseranno entro i confini legittimi di Israele. Qualcuno hai idea di quello che potrà succedere in quel paese?
Tre esempi. Tre scacchieri chiave del mondo. Tre situazioni in cui gli Stai Uniti stanno mettendo nelle peggiori condizioni i propri alleati. Quale popolo stanno servendo i dirigenti della politica statunitense? Probabilmente neanche il proprio.
A cosa può portare fomentare e poi rendere irresolubile un massacro di proporzioni epocali come quello in Ucraina? Pensano davvero di far svenare contemporaneamente la Russia e l’Europa facendole combattere l’una contro l’altra? Vogliono riprodurre lo schema strategico della Seconda Guerra mondiale in un contesto completamente diverso, con potenza e situazione geostrategica del tutto irrealistica? Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La sconfitta militare e politica che travolgerà la credibilità della NATO e dell’occidente collettivo tutto.
Dall’altro lato la Cina negli ultimi anni ha tirato fuori dalla povertà 800 milioni di persone. Non solo ciò è un risultato che testimonia la giustezza delle politiche verso il popolo, ma costituisce un volano formidabile per i futuri successi. Infatti dobbiamo pensare che ora la nazione cinese non è più dipendente dalle esportazioni, ma ha creata il più grande mercato interno al mondo, offrendo altresì i più ampi spazi di commercio a tutti gli attori che onestamente e in posizione di reciproca convenienza ne vogliono venire a far parte. Win-win, recita lo slogan di questa politica che incarna il desiderio di far partecipare tutti ai successi. Non più saccheggio e sfruttamento delle risorse umane e del territorio, ma elevamento economico e culturale offerto a tutti.
I più importanti sondaggi di opinione eseguiti da aziende indipendenti registrano per la dirigenza cinese il più alto tasso di gradimento della popolazione. A questo fa riscontro l’elevato grado di moderna democrazia che quel paese è in grado di realizzare. Contrariamente alla caricatura di democrazia che vige nei paesi occidentali, dove sia leggi per la presentazione delle liste elettorali che lo sbarramento per eleggere i deputati sono fatte per ostacolare le formazioni di opposizione reale, in Cina si sviluppa la democrazia del popolo che partecipa attivamente alle consultazioni elettorali e i deputati eletti rispondono ai cittadini che li hanno designati mostrando alta competenza e dedizione al lavoro.
IMPARARE DAI FATTI
La seconda iscrizione. IMPARARE DAI FATTI. Come raggiungere quei risultati.
Come abbiamo visto, in Occidente la ricerca, il pensiero critico è andato via via scomparendo, offuscato dalla propaganda, con conseguente incapacità di distinguere la realtà dai desideri.
La direzione politica non solo deve essere salda per guidare una nazione verso gli obiettivi che la collettività riconosce come prioritari e giusti e non una ristretta élite di monopolisti, ma essa deve essere sempre aderente ai fatti reali e da essi capire come orientarsi nella mutante realtà. Quando la dirigenza si separa dal popolo, e quindi dalla realtà; quando la corruzione, spirituale prima ancora che materiale, penetra nel quartier generale; quando la catena di comando e di successione delle leve della direzione politica è arrugginita e incrostata da mille scorie personalistiche; allora il destino è segnato in senso negativo.
La dirigenza del Partito Comunista di Cina, guidata dal Presidente Xi, ha fatto tesoro di questi insegnamenti, che derivano da un esame oggettivo e impietoso della storia millenaria e recente della Cina. La lotta alla corruzione, la lotta per innalzare il livello di benessere morale e materiale di tutto il popolo, l’atteggiamento di lunga prospettiva che si propone al mondo intero risiedono nell’approfondito studio del passato e del presente.
Mettere la politica al primo posto è essenziale, ma non si può scambiare questo comando per quello di nascondere l’immondizia sotto il tappeto.
I progressi registrati in Cina impressionano tutto il mondo. Ma la cosa stupefacente è che essi potrebbero essere realizzati da tutte le nazioni, se solo esse accettassero di mettere da parte i vecchi e negativi atteggiamenti di sopraffazione e si dedicassero alla collaborazione reciproca.
[1] https://www.iea.org/reports/solar-pv-global-supply-chains
[2] https://www.ifw-kiel.de/publications/news/chinas-massive-subsidies-for-green-technologies
[3] Piketty, T. and Saez, E. (2013), “A Theory of Optimal Inheritance Taxation”. Econometrica, 81: 1851-1886. https://doi.org/10.3982/ECTA10712
[4] Limes, “La Sindrome di Lear”, in Mal d’America – n°3 – 2024