Intervista a Francesca operaia SEVEL di Atessa.
Prima di far parlare Francesca (nome di fantasia) è necessario fare una premessa storica che porta alla nascita del più grande stabilimento d’Europa del gruppo FCA.
La SEVEL nasce nel 1978 come una joint-venture tra la FIAT e il gruppo PSA che raggruppa tra gli altri, i marchi Citroen e Peugeot. Produce per queste case automobilistiche i veicoli commerciali leggeri, il famoso Ducato, che viene riproposto, con modifiche minime, con i marchi di Jumper per Citroen e Boxer per Peugeot.
Copre un’area di oltre 1 milione di metri quadri, per la precisione 120 ettari, di cui oltre 330.000 coperti. Impiega oltre 6000 operai ed è tra gli stabilimenti più grandi d’Europa del gruppo FCA.
Sorge nella vallata del fiume Sangro in provincia di Chieti tra i comuni di Atessa e Paglieta. L’intero nucleo industriale della Val di Sangro impiega all’incirca 15 mila dipendenti suddivisi in aziende medio-piccole molte delle quali facenti parte dell’indotto di SEVEL in modo particolare e della Honda Italia.
La crisi del 2008 ha chiuso molte di queste piccole industrie, alcune delle quali filiali di multinazionali che hanno delocalizzato, dopo aver usufruito dei finanziamenti statali, in paesi soprattutto dell’est europeo.
La storia di questa, relativamente, piccola valle Abruzzese, inizia negli anni ’70. In quel processo di industrializzazione del sud e si fronteggiavano due diverse concezioni di sviluppo.
Quella che prevedeva una industrializzazione “forzata” indipendentemente dalle industrie che dovessero sorgervi dove la cosa fondamentale era che ci fosse “qualcosa che fumasse” e l’altra come ci ricorda il sen. Graziani, Sindaco Comunista di Paglieta che proponeva “interventi in agricoltura, quali l’ammodernamento della rete irrigua e della viabilità agricola, la realizzazione di strutture per la commercializzazione dei prodotti agricoli e lo sviluppo della cooperazione; lo sviluppo del turismo; ma anche industrie, collegate all’agricoltura e non, che avessero un alto tasso occupazionale in rapporto al capitale investito, ritenendo che bisognasse fare un uso parsimonioso ed oculato del territorio, nel quadro di un possibile armonioso sviluppo tanto dell’industria che dell’agricoltura.”
La contrapposizione tra questi due schieramenti avviene nei primi anni 70 dove la strenua difesa del territorio venne guidata dal PCI, contro l’insediamento della SANGRO CHIMICA, industria petrolchimica che doveva sorgere in questa vallata. A sostenere la Sangro Chimica era in modo particolare la DC e famose furono le parole dell’On. Gaspari, in seguito più volte Ministro democristiano, in un comizio che rivolto ai giovani disse: “Giovani, che ci volete fare con i pomodori e con i peperoni, ci vuole l’industria!”
Ma la lotta del popolo Frentano non si fermò, facendo fallire i propositi di installazione dell’industria petrolchimica, che nel frattempo aveva ricevuto anche i vari pareri e autorizzazioni oltre che una sostanziale approvazione di massima per gli ingenti finanziamenti da realizzare, nonostante la SANGRO CHIMICA SPA avesse solo 1 milione di lire di capitale Sociale.
Nel 1973 la FIAT annuncia l’intenzione di realizzare uno stabilimento in Val di Sangro mettendo nell’angolo i sostenitori della Sangro chimica, ma la DC con a capo l’On. Gaspari, ovviamente si appropria del successo delle lotte e rivendica come propria la scelta della FIAT.
Oggi a distanza di anni, però, la situazione non è cambiata di molto lo stabilimento FIAT è nato ed è cresciuto con il sudore di migliaia di lavoratori costretti a rinunciare attraverso ricatti e ritorsioni ai più elementari diritti (è di qualche anno fa la vicenda di un lavoratore costretto ad urinarsi addosso perché non era il suo turno di pausa).
La SEVEL è stata tra le aziende, nell’emergenza COVID 19, che hanno mantenuto aperti gli stabilimenti fino all’ultimo giorno nonostante questa non rappresentasse una “produzione essenziale” e nonostante non avesse nessuna urgenza di produzione visto che i furgoni prodotti vengono regolarmente “immagazzinati” nei molti siti industriali dismessi della Val di Sangro.
Parliamo della situazione della SEVEL con Francesca, operaia da 14 anni in questa azienda.
Francesca parlaci della tua azienda.
La SEVEL di Atessa è uno degli stabilimenti FCA più grandi d’Europa, siamo oltre 6000 addetti, e dove vige il modello Marchionne, il così detto CCSL, questo modello in un primo momento doveva essere un’eccezione per Pomigliano, poi è diventata una necessità per Mirafiori e in entrambi i casi è stato sottoposto a referendum ricatto mentre per SEVEL, che finora non conosce crisi se non in maniera limitata, ci è stato letteralmente imposto con la complicità dei sindacati filo-padronali firma tutto.
Come si svolge la vita all’interno della SEVEL?
Ogni giorno si corre si combatte si resiste. Da noi la crisi ha il volto dell’aumento dei ritmi e dei carichi di lavoro dei turni sfiancanti e dei provvedimenti disciplinari e questo è il segno dell’ingiustizia grande da digerire mentre a tanti uomini e donne si nega il lavoro, il presente e il futuro.
I Sindacati svolgono il proprio ruolo di difesa degli operai?
I sindacati confederali, compresa la FIOM-CGIL, sono diventati semplicemente risorse degli enti bilaterali sulla vendita di assicurazioni private, sulla complicità con le aziende e questa è la dura realtà. La FIOM in SEVEL ha fatto tentativi timidi, in questi anni, anche quando c’era la forza degli operai a sostenerla, ma hanno poi abbandonato la battaglia non garantendo la continuità delle lotte e di conseguenza ha perso col tempo in credibilità. Risultato? La confusione non potrebbe essere più totale, la crisi del sindacato non è casuale. Poi ci sono i sindacati di base, lo SLAI-COBAS e USB che in molti casi come in questi ultimi mesi hanno fatto azione di tipo quasi militare, fronte unico tramite scioperi e intimazioni legali per tutelare la salute dei lavoratori anziché tergiversare come hanno fatto i confederali. Le loro azioni hanno avuto un ottimo consenso, in fatto di adesioni, infatti sono cresciute tanto in termini di approvazione delle lotte ma meno in fatto di tesseramento. Da parte dell’operaio SEVEL abbandonato a se stesso per anni, pur rispettandone il lavoro, sa che aderire ad una di queste sigle significa subire rappresaglie.
Intanto nei luoghi di lavoro cresce il malessere che non trova sponde, aiuto, certezze collettive. Mai come in questo momento in piena pandemia, diventano problemi personali, frustrazioni, passività, apatia e intolleranza. I confederali sostengono che ormai i lavoratori non si mobilitano più, ma non lo fanno per indisponibilità alla lotta bensì per la loro sfiducia verso quei dirigenti che quelle lotte dovrebbero organizzarle.
La SEVEL è stata tra le ultime aziende a chiudere per l’emergenza da COVID 19 e ha dichiarato la propria disponibilità ad una immediata riapertura.
Riguardo al rientro in fabbrica c’è tanta paura in quanto senza prendersi per i fondelli eravamo, prima di questa pandemia, il primo paese con il maggior numero di morti sul lavoro (oltre 1000 lo scorso anno, ndr) e il famoso protocollo sottoscritto dai sindacati è un pericoloso accordo apripista, un protocollo per nulla realistico e attuabile. Un palliativo che può tutelare la persona? Mah. Ma che non garantisce affatto la sicurezza un protocollo che non serve ai lavoratori ma all’azienda.
Per me tornare in fabbrica adesso, in questo momento, durante la fase di emergenza sanitaria pone a rischio la salute dei lavoratori, e aggraverà la situazione dell’intero paese. Ok il controllo delle temperature, ok i DPI (guanti mascherine occhiali). Però in una situazione come quella italiana dove il personale sanitario è sprovvisto dei DPI, come fanno a garantirle a noi tutti i giorni?
L’uso delle mascherine chirurgiche, quelle considerate idonee crea una falsa fiducia nei lavoratori che, pensando di essere protetti, trascura l’altra misura fondamentale di prevenzione che è la cosiddetta distanza sociale. E all’interno della SEVEL questa misura di prevenzione è praticamente inattuabile. I sindacati ci dicono che la Regione ha emanato un’ordinanza sui trasporti per garantire la distanza, ma non vorrei che questo si trasformasse in un aumento degli abbonamenti e soprattutto le autolinee per il trasporto degli operai non potranno mai sanificare in modo adeguato i pullman visto che “scaricano” e “caricano” i lavoratori tra un turno e l’altro in pochi minuti. Saranno solo e sempre i lavoratori a pagare il prezzo di questa emergenza.
Si parla di una riapertura anticipata, delle misure studiate addirittura dal noto virologo Burioni, e addirittura questo protocollo SEVEL viene preso ad esempio per tutto il gruppo FCA, tu cosa ne pensi?
Semplice demagogia, propaganda per curare l’immagine. Per rassicurarci citano il comitato di esperti, ma con direzione manageriale, perché scalpitano per ripartire a tutti i costi scaricando di fatto la responsabilità sui lavoratori. Aspetteremo per le verifiche, ma tra noi lavoratori c’è molta paura e incertezza per le misure prese, non vengono menzionati i tamponi, le analisi del sangue (lo screening sierologico) e si parla solo di mascherine, distanziamento ecc,, ma ad oggi è tutto teorico e temo che l’impatto con la realtà sia devastante. Purtroppo la classe operaia è sempre più disarmata, mancano gli interlocutori politici e sindacali ma il dilemma resta sempre lo stesso: “Bisogna scegliere se restare vivi con le pezze al culo o morti ma pieni di soldi”. Anche se quelli che si riempiono di soldi sono quelli che in questa pandemia vivono nelle loro lussuose ville e senza alcun genere di problema che noi comuni mortali viviamo quotidianamente, costretti, se obbligati, a lavorare in un ambiente che non ci garantisce dai pericoli del virus per il solito “tozzo di pane” per assicurarci una vita dignitosa.
Nel ringraziare Francesca voglio chiudere questa intervista con una considerazione: il dilemma che 50 anni fa si poneva chi si opponeva alla SANGRO CHIMICA è lo stesso di oggi, con il capitalismo che non ha cambiato la sua natura e che deve trarre profitto al costo della salute e della sicurezza dei lavoratori.