di Andrea Brodi
Si, ma di lavoro cosa fai?
Quante volte un lavoratore dello spettacolo si sente controbattere con questa domanda dopo aver dichiarato la propria attività a chi ne fa questione?
Oggi però, sarebbe il caso di provare a fare l’esercizio inverso e, invece che sentirsi vittime di un sopruso verbale che trova la sua natura nell’ignoranza di chi ci sta parlando, come ci viene facile pensare, sarebbe il caso di scendere tra i mortali e farsi due domande.
Perché, la stragrande maggioranza trova lecito pensare che, lavorare nello spettacolo non sia propriamente un vero lavoro? La risposta è amara. Perché manca molto di ciò che serve per conferire credibilità a questa attività rispetto a tutte le altre. In primis mancano le più basilari tutele.
Oggi appare palese come lavorare nello spettacolo sia una pratica insostenibile senza le più elementari tutele, trarne un reddito stabile e dignitoso, che possa permettere di costruirsi un futuro sereno, senza ansie e doppi lavori è come vincere alla lotteria. Era così anche prima di marzo 2020, non lo scopriamo certo ora.
Manca un organo che organizzi in classe tutti i lavoratori dello spettacolo, cioè chi vive giornalmente del proprio lavoro e non certi baroni affetti solo da bulimia da follower; una realtà che acquisisca quella credibilità e consapevolezza tale da avere un peso in un tavolo di discussione. E con questo è bene essere chiari fin da subito scongiurando di finire per essere rappresentati, per non dire ingurgitati, da quella pletora concertativa formata dalle attuali sigle sindacali più in voga: si finirebbe per essere parte dell’ingranaggio della macchina contro la quale ci si pone l’obbiettivo di combattere.
Inoltre, manca un riconoscimento netto tra chi esercita l’attività, ha le giuste competenze acquisite dopo anni di studi e lavoro sul campo, e chi scimmiotta il professionismo e pone come fine ultimo la soddisfazione del proprio ego, svendendo se stesso e in particolar modo tutti gli altri.
Manca una politica ed un piano statale che metta al primo posto la cultura creando quindi opportunità di lavoro a tema. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla morte silenziosa di centinaia di piccole realtà culturali che nulla hanno potuto se non soccombere e non c’era alcuna pandemia a tediarci. Questo patrimonio culturale è morto con la complicità dello stato. La cultura non può essere pensata come unico fine utilitaristico, come sempre di più accade; uno stato ha il dovere di porre al primo posto la salute così come la salute culturale dei propri cittadini e non può permettersi di veicolare la cultura solo rispondendo alle necessità di profitto, poiché essa è un bene primario che deve poter essere fruito da tutti nel modo più sostenibile possibile.
Sono queste mancanze che partecipano allo stupro giornaliero della dignità lavorativa dei professionisti dello spettacolo, sono queste mancanze che suscitano, anche nelle persone a noi più care, l’odiosa domanda: si, ma di lavoro cosa fai? E tanto più ce la prendiamo con chi ci mette davanti alla lapidaria realtà, tanto più dovremmo prendercela con chi non ci permette di riprenderci la nostra dignità lavorativa.
Oggi non scendiamo in piazza per le briciole, non scendiamo in piazza come saltimbanco “che tanto ci fanno divertire” parafrasando il presidente Conte. Oggi, noi professionisti del mondo dello spettacolo, scendiamo in piazza perché vogliamo il cambiamento di sistema.
Oggi scendiamo in piazza per gettare le basi affinché nessuno si possa più porre il dubbio che il nostro non possa essere considerato un lavoro a tutti gli effetti.