Siderurgia pulita e licenziamenti: il caso di Monfalcone

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Siderurgia pulita e licenziamenti: il caso di Monfalcone

Prima di tutto una domanda: è possibile pensare ad un sistema paese diverso da quello che le grandi concentrazioni monopolistiche hanno assegnato all’Italia, seppure ancora in un sistema di produzione capitalistico? La domanda in ogni caso presuppone che le risposte vere, quelle che andrebbero nell’interesse della classe operaia e del movimento dei lavoratori possono venire solo dalla conquista del socialismo-comunismo, e quindi dalla più alta forma di democrazia possibile, quella che si attua nell’economia con la dittatura del proletariato. Proviamo però a spiegarci per l’oggi e per il che fare oggi stesso.

I processi di deindustrializzazione che sono in corso in Italia ormai da più decenni hanno prodotto come risultato, da un lato la perdita di tutto quel patrimonio di conoscenze, di tecnologia e di processi produttivi che hanno caratterizzato il nostro paese dal secondo dopoguerra fino agli anni ottanta.(le grandi holdings considerano l’Italia come il discount dove fare la spesa per aggiornare il loro cosiddetto know-how), dall’altro la disoccupazione di massa con l’impoverimento della classe lavoratrice e l’esplosione del conflitto sociale non verso l’alto (lotta di classe) ma verso il basso (guerra fra poveri). Come corollario si ha  che, tornando alla domanda iniziale, il modello economico assegnato all’Italia è non più quello di un paese manifatturiero, ma quello di un paese ad economia terziarizzata dove prevalgano le imprese legate al turismo-intrattenimento-divertimento (una sorta di Florida povera dell’Europa), e il conseguente spostamento della fonte del diritto (art.1 della Costituzione) dal lavoro al consumo.

Se tutto ciò è vero, crediamo che per contrastare questo disegno, anche da un punto di vista blandamente riformista, bisognerebbe allora rivendicare una sorta di economia di prossimità come modello da perseguire per porre dei limiti ai danni che l’attuale crisi sistemica riversa sui lavoratori.

Cioè, prendendo a modello l’idea del km 0 già adottato nei circuiti alternativi dei produttori-consumatori agricoli-biologici, perché non dovremmo pensare anche per il settore industriale ad un modo di produrre ciò che serve dove serve e quando serve, e soprattutto farlo in modo da conservare (non sprecare) le risorse primarie occorrenti (acqua, aria, suolo)? E farlo, a maggior ragione, tutelando la salute dei lavoratori e dei lavoratori-consumatori? Pare impossibile che, se si applicassero le conoscenze tecnico-scientifiche attuali al modo di produzione saremmo perfettamente in grado di ottenere produzioni “pulite”, anche in quei settori che da sempre sono considerati i più problematici (siderurgia e chimica in primo luogo).

Se questo non avviene è perché chi detiene i mezzi di produzione (i grandi monopolisti, le grandi società finanziarie) hanno già deciso altrimenti, e cioè hanno deciso, sempre allo scopo di massimizzare i loro profitti, di scaricare gli effetti indesiderati del loro modo di produzione sull’intera umanità e sull’intero pianeta.

Tocca quindi a noi, la classe operaia, fare in modo che quello che sembra un futuro già scritto muti di senso e diventi la tomba dei suoi profeti.

La situazione paradigmatica di questo teorema sta proprio nell’industria siderurgica italiana, un tempo il fiore all’occhiello della impiantistica del nostro Paese, segnatamente quella pubblica, insieme all’industria aeronautica e chimica. Una delle vulgate diffuse ad arte dal pensiero unico borghese è che tale attività sia non solo necessariamente sporca, ma anche inutile ed antieconomica. Nessuna di tali asserzioni è vera, ma andiamo ad analizzare la situazione specifica in cui ciò è più facilmente dimostrabile, e cioè quella che riguarda la Fincantieri di Monfalcone, ancora formalmente di proprietà ed a gestione pubblica.

Alla Fincantieri di Monfalcone lavorano 1500 dipendenti diretti: 850 operai, il resto impiegati. Da almeno 10 anni gli operai sono in costante calo, non c’è sorta di turnover, mentre gli impiegati e i capi sono in crescita. Ne stanno assumendo tuttora, mentre scriviamo, Mentre gli addetti indiretti, a seguito delle sfrenate esternalizzazioni dei processi e dei servizi, con le relative, obbligatorie privatizzazioni, sono normalmente tra i 4000 e i 4500, distribuiti in circa 200 ditte in appalto e 300 in subappalto. Teniamo conto che la situazione delle ditte è in sé molto complessa: Fincantieri, soprattutto con la gestione dell’amministratore delegato Bono, ha eliminato le ditte “storiche”, per intenderci quelle più sindacalizzate, preferendo imprese di fuori regione, provenienti sia dal Meridione d’Italia, che da altri Paesi, con la conseguenza diretta che la maggioranza dei lavoratori italiani dell’appalto proviene dalla Campagna e dalla Sicilia, mentre le nazionalità straniere sono le più varie, ma soprattutto del Bangladesh, dalla Croazia e dalla Romania).

Per comprendere il contesto dentro cui ciò eè avvenuto ed avviene è utile acquisire la notizia di questi giorni: la guardia di finanza ha scoperto una ditta dell’appalto, italiana di proprietà ma costituita in Romania, che avrebbe evaso il fisco per almeno 6 milioni di Euro. Per altro i fallimenti e le chiusure delle ditte di appalto sono all’ordine del giorno, lasciando per strada migliaia di lavoratori. Per non parlare dei fenomeni di possibile illegalità, sui quali non si è riusciti a fare sufficiente chiarezza.

Nei periodi di picco, quando il cantiere lavora su più navi, gli indiretti si avvicinano agli 8000 o più, vediamo ad esempio il periodo febbraio-aprile 2016, che vedeva una nave in consegna, una in allestimento ed una in costruzione. Naturalmente in tali periodi aumentano anche le ditte in appalto e subappalto (i gradi di subappalto possono toccare anche i 13 livelli !).

Intanto al momento le commesse di lavoro sono state assicurate fino al 2021 (altro che inutilità della cantieristica): tutte per la costruzione di navi da crociera, e ciò oltre a pesare sull’organizzazione del lavoro, pesa molto sulla qualità dello stesso e sulla sicurezza delle tecnologie. E si realizza pure un sovraccaricato di criticità per la vita della città, vedi affitti, trasporti, parcheggi, logistica in generale, oltre a situazioni di emergenza sociale in una cittadina di 27mila abitanti, che però raggiunge i 35mila con i nuovi  domiciliati.

Altresì è consolidata la prassi di far costruire all’estero, ad esempio nei cantieri di Spalato in Croazia, parti anche importanti degli scafi, che poi vengono fatte arrivare via mare a Monfalcone. Ma già da qualche anno componenti di navi sono costruite in altri cantieri italiani, anche giustamente, in quanto diversificazioni delle lavorazioni, sottratte alle logiche aberranti della competizioni tra lavoratori. Per alcune delle prossime costruzioni in programma è previsto, però, che buona parte dello scafo sarà costruita in Romania, e ciò per un mero calcolo ragionieristico, che non tiene conto invece dell’impatto dei trasporti e dei fattori logistici in manufatti di tali enormi dimensioni e di estrema delicatezza tecnologica. Questo è accaduto anche quando il cantiere aveva un buco di lavoro (a tal proposito, notizia di oggi, è la denuncia tardiva, come sempre, della FIOM che chiede lumi alla presidente della regione F.V.G. Serracchiani, supporter di prima fila di Bono & Co, ma buona ultima dopo l’idillio ormai spento tra l’A.d. e la Lega Nord al tempo di Bossi.  Dunque la vice di Renzi, durante una manifestazione pubblica promossa la scorsa settimana dalla diocesi di Gorizia sulla dignità del lavoro, ha asserito che nel 2011 la Fincantieri stava per chiudere lo stabilimento di Monfalcone. Ovviamente non si era premurata di spiegare perché, sapendo tutto ciò, non aveva pensato di renderne edotti i lavoratori, i sindacati e le istituzioni democratiche del territorio.

Oggi la parte più consistente degli operai del cantiere opera in officina navale e salderia B, ed in bacino sullo scafo operano solo ditte, mentre i diretti si occupano d’impiantistica elettrica, tubisteria e parti meccaniche, ma per lo più con funzione di verifica degli impianti, piuttosto che di preparazione e installazione. Va da sé che con questa strategia gran parte delle professionalità importanti sono state e si stanno perdendo, con tutto ciò che ne consegue, anche considerando le esternalizzazioni, ma soprattutto i riflessi sugli standard di sicurezza, sul loro livello e sulla nocività nei processi, sia verso i lavoratori sia verso le popolazioni residenti. Si va dunque verso un peggioramento delle condizioni qualitative di produzione, evidentemente perché l’esperienza degli impianti privatizzati di Taranto non ha insegnato nulla, se non la segnalazione della sostanziale impunità del management aziendale in ordine ai danni sulla salute e sulla sicurezza pubblica.

Ma la priorità del capitale non può essere una siderurgia pulita e sicura. La sua priorità è lo sfruttamento crescente, il controllo asfissiante e la repressione della classe operaia.

E qui andiamo alla vergogna dei licenziamenti dei quattro operai, decisi fuori da ogni regola contrattuale e a cui le organizzazioni sindacali complici, Fiom compresa, non hanno voluto opporsi efficacemente, nonostante la pronta e combattiva risposta operaia dentro la fabbrica.

I fatti: durante il turno notturno di mercoledì 5 ottobre i lavoratori che poi saranno licenziati, insieme ad altri, avevano concordato con il capo di non fare la pausa mensa notturna (il servizio di notte per latro non esiste), originariamente prevista dalle 2.00 alle 2.30, spostandola più tardi, in quanto concordavano con il capo di andare avanti col lavoro. Tale spostamento era stato concordato prima della mezzanotte, dato che da quell’ora al momento della contestazione gli stessi non avevano più visto il capo.

Dopo aver svolto il loro lavoro, gli operai hanno cominciato la pausa alle 3 e poco prima delle 3.30 il capo si è presentato da loro e, da una contestazione non notificata, si dava origine al provvedimento disciplinare. I lavoratori interessati hanno tutti risposto alla stessa maniera, raccontando appunto quanto sopra riportato, ma l’azienda non ha voluto in alcun modo prendere in considerazione la loro versione dei fati. Del gruppo solo un operaio dichiarava che effettivamente in quel momento s’era addormentato, ma va detto, appunto, che anche lui era in pausa concordata.

Non a caso, infatti, la prima cosa contestata dall’azienda è che la pausa era prevista in un altro orario e che, quindi, i lavoratori in quella nottata si sarebbero presi la libertà di farne più di una. Ciò dando per scontato che avessero comunque effettuato la pausa ufficiale.

Senza tenere conto delle giustificazioni dei lavoratori, applicando il provvedimento più grave previsto per contratto, ovvero il licenziamento per giusta causa previsto dal famigerato Jobs-act, con l’obiettivo punitivo ed “educativo”, classicamente “esemplare”, anche se perpetrato con procedure arbitrarie e non garantiste.

Una vera e propria rappresaglia nei confronti di una base operaia che, nonostante tutto, ha dimostrato di non gradire, né avallare, né subire  un contratto integrativo assolutamente negativo e peggiorativo, voluto ed imposto dalle segreterie nazionali di Fim, Fiom, Uilm., Landini in testa.

Va sottolineato che i 3 lavoratori hanno saputo del licenziamento il giorno dopo, senza preavviso alcuno, davanti ai cancelli della fabbrica, quando, recatisi al lavoro, si sono visti i tornelli non aprire davanti a loro e dalla portineria consegnare la lettera di licenziamento ostentatamente, sotto gli occhi tutti gli altri compagni di lavoro… Solo lunedì successivo sono arrivate le rituali raccomandate postali.

Le RSU venerdì 7 ottobre, prima unitariamente, hanno proclamato 2 ore di sciopero, poi lunedì 10 ottobre si sono tenute le assemblee: gremitissime, da tempo non si vedeva tanta gente in sala mensa. Solo al quarto licenziamento sono state proclamate finalmente 8 ore di sciopero, ma senza il sostegno di Fim e Uilm. Nel frattempo il falso rivoluzionario, notorio parolaio Landini si “sprecava” a sostenere la scelta della via giudiziaria.

Ma questa clima autoritario ed intimidatorio durava da tempo. La stessa Fiom aveva anche dovuto denunciare il fatto che Fincantieri, leggendo restrittivamente il D.lgs 231/01 “Modello di organizzazione e gestione della sicurezza sul lavoro”, a ogni infortunio faceva partire, in automatico, la contestazione ufficiale al lavoratore infortunato per supposta imperizia. Il possibile risultato poteva essere che al terzo provvedimento il lavoratore sarebbe potuto incorrere nel licenziamento. Ma sempre la Fiom non era andata oltre una dimostranza di facciata, rifuggendo da ogni minima azione di lotta. Ma non era finita là: da settembre Fincantieri aveva deciso di utilizzare un servizio di sicurezza interno, formato da guardie armate di pistola, che iniziavano a presidiare lo stabilimento. In risposta prima solo le RSU FIOM, e solo dopo le segreterie provinciali Fim e Fiom (Uilm si è defilata), hanno richiesto l’intervento della Prefettura e successivamente all’Amministrazione comunale, in modo da far ritornare sui suoi passi Fincantieri, che evidentemente si voleva e si vuole configurare con un potere proprio di tipo statuale, un’isola repressiva a parte nel territorio. Ma neppure su ciò, malgrado la gravità del fatto in sé, non sono giunte risposte.

Tutta questa esperienza ci rafforza nella convinzione che solo la creazione di un ampio Fronte unitario dei lavoratori della fabbrica, scavalcando e travolgendo i bonzi sindacali locali e nazionale, anche indipendentemente dalla attuali appartenenze organizzative, possa dare riposte pronte ed efficaci alle rappresaglie, ai licenziamenti, agli attacchi sistematici al salario ed alle situazioni concrete di lavoro. La prospettiva è quella della costruzione dal basso del Sindacato di Classe nel nostro Paese, e tale processo si avvia appunto nel fuoco del conflitto di classe.

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