di Steve Piliero
L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha cambiato completamente le nostre abitudini, a cominciare con l’aumento dell’attenzione legata alla nostra igiene personale fino a modificare le nostre relazioni interpersonali e il nostro modo di lavorare.
Concentrandoci sui metodi di lavoro si è vista progredire una modalità, conosciuta con i termini “smart working” o “lavoro agile”, che prevede l’utilizzo di strumenti tecnologici, quali smartphone pc e tablet, per svolgere il suddetto lavoro direttamente da casa.
In molti al pensiero di non doversi allontanare dall’abitazione, risparmiare sul carburante, poter dormire un’ora in più e dedicare maggior tempo alla famiglia hanno reagito con entusiasmo.
Ma è veramente tutto oro quello che luccica?
Se è vero che gli aspetti citati sono positivi, il lavoro da casa presenta però diversi aspetti negativi a cui diamo poco peso o che non consideriamo affatto.
Le testimonianze dei “lavoratori da casa” ci dicono che lo smart working porta ad una condizione di totale isolamento dai colleghi che non permette quei legami sociali e di amicizia che solitamente vengono a crearsi sul posto di lavoro.
Venendo meno tutta la socialità precedentemente citata, sorgono tutta una serie di problemi dannosi per la salute mentale dei lavoratori: perdita di distinzione tra casa e luogo di lavoro, la non capacità di autodisciplinarsi, continua mancanza di concentrazione e stress e ansia che nei peggiori casi possono portare alla depressione.
Spostando la discussione sull’efficienza e la capacità lavorativa, l’impiego da casa presenta altre carenze e difficoltà; essendo eliminato il concetto di “squadra”, si azzera tutta la capacità creativa che poteva manifestarsi lavorando in team, e viene eliminata la possibilità di essere corretti e aiutati dai colleghi in caso di errore o difficoltà.
Inoltre le donne, cui troppo spesso viene affibbiato il ruolo di cura della domus, si sono viste aumentare le ore da dedicare ai figli e alla casa, a scapito dell’efficienza lavorativa.
I racconti dei lavoratori, lamentano anche un abbassamento dei livelli di privacy non indifferente.
Con la scusa di dover coordinare meglio il lavoro da casa molti hanno dovuto lasciare i contatti dei loro social network, con il preciso intento da parte dei padroni, di poter richiedere a tutte le ore del giorno (e spesso anche della notte) una maggiore flessibilità.
Possiamo dire perciò che se prima le pressioni erano ben circoscritte ad una precisa fascia oraria regolata dall’orario di lavoro, con lo smart working questo viene meno aumentando i livelli di ansia e stress.
Quanto elaborato dalle testimonianze raccolte stride con quanto è scritto nell’unico strumento che dovrebbe difendere i lavoratori: la legge 81 del maggio 2017.
Il lavoro agile (disciplinato dalla suddetta legge) prevede che ci sia un accordo tra dipendenti e datori di lavoro; andando però a verificare quanto scritto dagli articoli e dai commi presenti, vediamo che quanto previsto può facilmente trasformarsi in un’arma nelle mani di questi ultimi.
Il comma 1 dell’articolo 18 ci dice infatti che “Allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, promuovono il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro…” e continua dicendo che “La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.“
Mentre il comma 2 dello stesso articolo ci dice che “Il datore di lavoro è responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa.”
Le sigle sindacali hanno sempre lamentato una difficoltà nel verificare e nel controllare quanto previsto da questo articolo, se consideriamo che di per se è molto difficile entrare nelle aziende per verificare il rispetto dei doveri dei padroni nei luoghi dove non è previsto il lavoro agile, immaginiamo la difficoltà di verificare le condizioni dei lavoratori all’interno delle proprie abitazioni.
Come possiamo pensare che le già citate sigle riescano a determinare quanto dura un obiettivo, una fase o un ciclo?
E se anche riuscissero a quantificare la durata di queste “modalità” di misurare del lavoro, come sarebbe possibile verificare il rispetto dei limiti di queste ultime o verificare che il lavoro da casa si svolga effettivamente durante le ore previste dalla contrattazione collettiva?
Come possiamo assicurarci infine che il padrone fornisca effettivamente a tutti i lavoratori gli strumenti tecnologici capaci di far lavorare il dipendente?
Queste domande non trovano una risposta, e andando avanti con la lettura della legge, sorge un’altra complicazione che hanno spesso presentato i sindacati all’articolo 21 (che regola il potere di controllo e quello disciplinare): “L’accordo relativo alla modalità di lavoro agile disciplina l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali nel rispetto di quanto disposto dall’articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni.”
L’articolo 4 della legge 300 del 20 maggio 1970 ci dice infatti che:
“E’ vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna.”
E’ evidente che la legge (ormai datata) non tiene conto del processo di avanzamento tecnologico che hanno raggiunto gli apparecchi elettronici, dell’era “social” in cui viviamo, oltre a non considerare il disinteressamento alla politica e alle questioni del lavoro (di cui sono anche responsabili gli anni di politica fallimentare dei governi di destra ma anche della “falsa sinistra”) che non permettono l’organizzazione dei lavoratori e la nascita degli organi di controllo degli stessi operai, le rappresentanze sindacali e i consigli di fabbrica.
Come possiamo dunque, visto quanto abbiamo detto in precedenza, pensare che i padroni non utilizzino i vantaggi dell’avanzamento tecnologico e i numerosi canali di comunicazione social per aumentare la capacità di controllo sui lavoratori?
La verità è che non possiamo, non abbiamo abbastanza strumenti ed elementi necessari per la difesa dei lavoratori, e sulla base di quanto abbiamo detto fino ad ora, come Partito Comunista non possiamo che opporre, in questa fase, una strenua resistenza allo smart working.
Crediamo inoltre che la crisi dovuta al Covid-19 abbia dato una spinta decisiva alla sperimentazione di questa nuova modalità che anziché diventare un’occasione per emancipare e dare maggiore libertà ai lavoratori, permette un notevole risparmio e maggiori profitti nelle tasche dei padroni oltre ad un maggior controllo sui dipendenti; rendendo sempre più complicato il difficile lavoro di vigilanza che spetta alle realtà sindacali, eliminando inoltre la possibilità di organizzazione da parte dei lavoratori, elemento fondamentale per generare quella coscienza di classe che permetterebbe di chiedere migliori condizioni di lavoro capaci di dare un impiego a tutti, per lavorare meno e vivere meglio.
Solo una società fondata sui valori del Socialismo può invertire la rotta che i padroni hanno intrapreso cavalcando l’onda di questa emergenza sanitaria.
Oggi più che mai
POTERE A CHI LAVORA!