di Alessandro Mustillo
La vicenda venezuelana, ha polarizzato l’attenzione mediatica per giorni. Le elezioni della Costituente, e le mobilitazione popolari sono state oggetto di articoli di cronaca e di iniziative di contro informazione per riuscire a riportare notizie veritiere e sconfiggere le narrazioni tossiche dei media filo-imperialisti. Ma oltre ciò la vicenda venezuelana ha sollevato un dibattito interno alle forze della sinistra, nei sindacati, nei movimenti di lotta. Un dibattito variegato, dal quale è bene non tirarsi indietro per dare una lettura di classe non solo degli avvenimenti ma del processo storico che il Venezuela sta attraversando da alcuni anni.
Quale è stato il principale risultato politico del chavismo? Senza dubbio l’attuazione di forti politiche redistributive. I proventi della nazionalizzazione del petrolio, sottratti agli appetiti del grande capitale monopolistico internazionale, sono stati utilizzati per finanziare missioni in tutto il paese. Ciò ha significato istruzione, sanità, abitazioni, miglioramento della condizione di milioni di lavoratori e di ampi settori delle classi popolari venezuelane. Senza dubbio un dato di forte controtendenza, al punto di creare un irriducibile contrasto con la visione dominante della gestione capitalistica, e generare uno scontro di classe nella forma di un aperto conflitto.
Se crisi esiste oggi – è questo è un dato innegabile ed oggettivo, pur facendo la necessaria tara alle affermazioni dei media europei, e assumendone conclusioni diametralmente opposte – si tratta non di una crisi del socialismo, che in Venezuela non c’è, ma di una crisi che palesa il limite storico di una gestione socialdemocratica improntata per l’appunto sulla redistribuzione, ma non sullo stravolgimento dei rapporti di produzione. Il Venezuela era ed è rimasto in questi venti anni di governo del PSUV un paese capitalistico, in cui la proprietà di interi settori dell’economia del paese è stabilmente in mano alla borghesia. Una borghesia che non può tollerare che attraverso processi politici progressivi si ponga, anche solo come obiettivo strategico, il superamento del suo potere come classe dominante. Una borghesia che non può vedere ridotti o minacciati i propri profitti, senza dare battaglia, perché le classi dominanti non sono disposte a sventolare bandiera bianca di fronte ad un risultato elettorale. Non lo hanno fatto fin dagli inizi del governo di Chavez quando organizzarono un colpo di stato poi fallito, con la complicità dei settori imperialisti, della CIA.
Definire l’orientamento politico del PSUV sinceramente “socialdemocratico” potrebbe sembrare una bestemmia, se si considera ciò che oggi è divenuta la socialdemocrazia ufficiale. In realtà il chavismo è una forma moderna di una reale, originaria, socialdemocrazia, o come diceva Chavez di democrazia socialista, che recupera le più autentiche e originarie visioni di sinistra della socialdemocrazia, lì dove oggi la socialdemocrazia ufficiale è del tutto passata nel campo dell’imperialismo. Ma il fatto che la nostra socialdemocrazia si sia spostata su posizioni apertamente filo-imperialiste non rende la visione socialdemocratica, priva dei suoi limiti storici, non può promuoverla automaticamente a esempio, al punto da teorizzarla nella forma del “Socialismo del XXI Secolo”. E ciò è valido al di là delle differenze continentali, culturali, di tutto l’insieme delle particolarità nazionali, che non sono tali da poter stravolgere la questione fondamentale dei rapporti sociali di produzione, che universalmente condiziona il carattere delle istituzioni e della società che sopra di esse si eleva.
Il capitalismo e il socialismo non si possono fondere. Non esistono terze vie, o sistemi intermedi. Nel breve periodo è possibile coniugare politiche fortemente redistributive con il mantenimento di un’economia capitalistica. Lo dimostra la storia europea, lo vediamo anche oggi nel sud America, con tutte le particolarità e le differenze. Ma a medio lungo periodo il sistema capitalistico non può sopportare un tale utilizzo distorto delle risorse rispetto alle stesse logiche capitalistiche. E questo non perché esistano singoli borghesi avidi, cattivi, ma perché le leggi oggettive del capitale determinano le logiche di un’economia di mercato. Il capitale non può accettare salari più alti di quelli che la competizione internazionale sul costo delle merci impone, non può tollerare prezzi di mercato della abitazioni abbassate grazie all’intervento pubblico, merci a prezzi calmierati, non può perdere interi settori, dai traporti alla sanità, all’istruzione, non può tollerare tassazioni elevate sui capitali. Tutto ciò può essere imposto per decreto, come fatto dal governo del PSUV in questi anni. Può essere accettato nel breve periodo, ma a lungo andare produce uno scontro mortale tra una struttura modellata sulle leggi del capitale e un governo che vuole fare l’interesse delle classi popolari. Questo è il contesto di crisi che oggi attraversa il Venezuela.
Si innesca allora una stagione di lotta che non può che finire con la vittoria di una delle due classi in lotta. Con la sconfitta della borghesia, che può avvenire solo attraverso una rivoluzione che abbia come obiettivo la socializzazione dei mezzi di produzione e l’esproprio delle classi dominanti. Oppure con la vittoria della borghesia, che può avvenire tanto sul campo aperto di una guerra civile, come in quello, meno sanguinario ma per certi aspetti ancora più insidioso, del compromesso che appoggiandosi ad aree interne degli apparati politici e di stato, estromette le forze rivoluzionarie e quelle più genuinamente progressiste, per riaffermare il proprio potere anche a livello politico.
L’opzione rivoluzionaria dipende senza dubbio dai rapporti di forza. Ma non va trascurata anche l’importanza primaria di una chiara visione teorica e strategica sulla necessità di questa rottura. Una teoria, una strategica rivoluzionaria è indispensabile per l’avvio di un processo rivoluzionario. Se sui rapporti di forza sarebbe impossibile e spocchioso pretendere di fare sfoggio di analisi, che difettano di conoscenze necessariamente accurate e profonde, diverso è il giudizio sul punto teorico. Il “Socialismo del XXI secolo” nasce come negazione della visione marxista-leninista, come reazione alla controrivoluzione e al crollo del campo socialista, che si alimenta del recupero di visioni pre-marxiste, utopismo, dottrine sociali di matrice umanistico-religiosa, e aperto anti-leninismo. I rapporti di forza passano in secondo piano nel momento in cui non esistono i presupposti teorici per attuare tale cambiamento. Non si fa, solo perché non si può. Non si fa prima di tutto perché non si vuole, perché quella non è considerata la via corretta. Questo purtroppo è il punto, fino ad oggi.
E’ possibile che gli eventi condizionino l’evoluzione di un processo, che costringano verso una direzione rivoluzionaria? E’ possibile, nel momento in cui questi eventi, aggiungendosi al bagaglio dell’esperienza storica del movimento operaio nella sua emancipazione, facciano avanzare anche dal punto di vista teorico la consapevolezza della necessità una svolta rivoluzionaria. Farlo significherebbe individuare con chiarezza i soggetti storici del cambiamento, la classe lavoratrice, non come mero orpello ideologico, non come parte di una più generale schiera di indistinti diseredati e dannati, ma come classe predisposta dallo sviluppo capitalistico a prendere le redini della società, a convertire le proprie conoscenze e capacità in potere effettivo in direzione del paese. Significherebbe rimuovere gli aspetti utopistici del “Socialismo del XXI secolo”, rompere con ogni illusione di coesistenza tra economia capitalistica e “socialismo”, tra istituzioni che rispondono ad una visione liberal-borghese e la costruzione del socialismo. In poche parole rivedere un giudizio errato e frettoloso sul socialismo del XX secolo, quello che ha portato il proletariato al potere, che ha indicato la via della costruzione della società socialista, che è caduto nel momento in cui riforme di carattere capitalistico ne hanno minato dall’interno la costruzione, in un contesto internazionale ostile di scontro con l’imperialismo. Significherebbe infine non riporre fiducia cieca negli apparati di uno stato ancora borghese, coinvolgere le masse popolari che ancora oggi in maggioranza hanno dimostrato di resistere alla pressione imperialista, organizzarle e prepararle ad ogni evenienza. Non è fuori luogo ricordare l’esperienza cilena, che troppo assomiglia al Venezuela.
E’ possibile davvero un processo del genere? Non spetta a noi dirlo. Spetta a noi caldeggiarlo, consigliarlo, perché la solidarietà internazionalista vera è quella che non si tira indietro e non si nasconde. Garantendo il supporto alle aree più conseguenti, al Partito Comunista del Venezuela, al fronte che insieme ad esso hanno costituito quei movimenti e quelle forze politiche che insistono per una soluzione rivoluzionaria della crisi attuale. Questa è la nostra opzione, non certo visioni compromissorie che non possono avere il nostro supporto. Alla nostra lettura teorica si somma la nostra azione pratica, la nostra lotta antimperialista, convinti che dentro il processo bolivariano esistano margini di radicalizzazione, fuori da esso al momento esiste solamente la vittoria delle forze più reazionarie e filo-imperialiste, la repressione aperta verso i comunisti e le forze più rivoluzionarie.
Spetta a noi infine vigilare e impedire qualsiasi coinvolgimento diretto del nostro Paese a supporto della borghesia venezuelana. In un paese del G7, della Nato, in una delle prime dieci economie del mondo, questo compito è tanto più importante, e ci carica di responsabilità enormi. Conosciamo bene gli interessi reali della borghesia italiana in Venezuela, conosciamo i legami con la comunità italo-venezuelana, tra cui figurano molti imprenditori, spesso tra i più reazionari. Le dichiarazioni del governo e del segretario del PD, Renzi, esprimono con chiarezza la posta in gioco. Sappiamo che le imprese petrolifere italiane, che le imprese di costruzioni, che le banche, rivendicano la loro parte della torta venezuelana. Non può esistere alcun tentennamento, alcuna equidistanza, che si risolverebbe in un sostegno aperto a questi settori del capitale, come vergognosamente fatto da esponenti di sinistra italiana, come Fassina, e dal Manifesto con il rifiuto della pubblicazione degli articoli di Geraldina Colotti, che il nostro giornale ha ospitato.
Denunciare le narrazioni tossiche dei media, vigilare e impedire il coinvolgimento italiano nelle vicende venezuelane, analizzare i processi continuando a far avanzare la costruzione di una teoria rivoluzionaria adeguata ai nostri tempi, criticando lì dove necessario modelli che non si dimostrino in grado di portare a compimento questo fine, sono i nostri compiti. Solo chi non condivide fino in fondo un’orientamento rivoluzionario può vedere in questi aspetti delle contraddizioni. Essere in prima linea contro l’imperialismo, significa anche e soprattutto voler vincere.