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Sospesi tra Davos e Singapore

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

di Pietro Fiocchi

 

Anche quest’anno il vertice di Davos ha chiamato a raccolta, per quest’anno in maniera virtuale, i principali nomi della politica, economia, finanza e società civile. Qualcuno assente…

All’ordine del giorno l’agognato “reset” generale per ripartire dopo l’emergenza, che sembra per ora non volerci dare tregua.

Così come – a qualche giorno dalle altisonanti dichiarazioni di buona volontà, responsabilità condivisa, fumo negli occhi ecc. – la cronaca dei fatti non ci mostra per ora la reale possibilità di un’effettiva ripartenza, a cominciare da sane relazioni internazionali, premessa per costruire quel mondo di pace e prosperità a cui aspirerebbero i protagonisti di questo Forum economico virtuale, prove generali di quello che dovrebbe tenersi per maggio a Singapore, un cambio di destinazione dovuto alla pandemia e, forse, non solo.

Una novità interessante delle giornate di Davos è stato l’intervento, a distanza, del presidente della Federazione russa Vladimir Putin, che in veste di primo ministro aveva partecipato all’appuntamento annuale per l’ultima volta nel 2009. Da allora, a parte nel 2013 quando per la Russia è stato presente Dmitrij Medvedev, anche lui allora primo ministro, a rappresentare il governo di Mosca erano delegazioni con a capo un vice-premier.

In videoconferenza il presidente russo ha detto che l’Europa e la Russia sono “partner naturali” per l’economia, scienza e tecnologia, purché ci sia un “dialogo onesto”. Stesso tono per quanto riguarda le sfide globali, da affrontare insieme, con un occhio di riguardo all’Africa, anche e soprattutto per quanto riguarda l’emergenza sanitaria.

L’Europa sembra però non corrispondere, anzi, pare proprio che tutte le speranze degli attuali leader siano rivolte al neoeletto presidente statunitense Joe Biden. Questo illustre rappresentante del Democratic Party, che sta educatamente movendo i primi passi da inquilino della Casa Bianca, quando una decina di anni fa era il vice di Obama, ha mostrato tutt’altra atteggiamento, soprattutto nei confronti della Russia. Lo ricordiamo nell’estate del 2009 a fianco dell’allora presidente georgiano Mikheil Saakashvili, super protetto di Washington, in visita nel paese caucasico, per appoggiare in pieno la causa del governo di Tbilisi, e rivolgendosi a quello di Mosca con toni tutt’altro che aperti al dialogo.

Allora si trattava della delicatissima questione delle auto-proclamatesi repubbliche dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud e del conflitto militare occorso per quest’ultima tra Georgia e Russia. Sulla guerra l’ultima parola l’ha già detta una commissione internazionale, guidata dall’ex ministro degli esteri della Svizzera, Heidi Tagliavini: a dare inizio al conflitto fu la Georgia, la Russia ha risposto all’attacco, con l’appunto che nell’autodifendersi abbia forse esagerato con l’uso della forza.

Non facile in certe occasioni mantenere la giusta misura. Del resto è anche difficile dimenticare la strage di innocenti a Belgrado e Novi Sad per portare pace e diritti umani, una strategia che ancora oggi pone degli interrogativi, e che fu in buona parte voluta e promossa da un altro democratico statunitense d’eccellenza.

Per quanto riguarda poi l’ex presidente Saakashvili, dopo qualche anno in cui è stato incensato come eroe della libertà, si è trovato contro i suoi stessi popolo e paese, ha dovuto lasciare la Georgia, stato del quale gli è stata tolta la cittadinanza e dove sarebbe ricercato per presunti abusi di potere e altri reati. Ha riparato in Ucraina, e anche qui ha avuto vicende alterne, tra incarichi politici e detenzione, espulsione dal paese, varie peripezie in Europa e perdita della cittadinanza ucraina, che gli è stata ridata dal nuovo presidente Volodimir Zelenskii nella primavera del 2019 e dall’anno scorso pare gli abbia anche conferito un nuovo incarico politico.

Sempre a Davos, come Putin, hanno espresso una netta preferenza verso il multilateralismo anche gli altri video-conferenzieri, ma in particolare ci dovrebbe interessare che lo abbia fatto il presidente cinese Xi Jinping. La Cina è il paese che ha affrontato l’emergenza sanitaria con maggiore successo, è probabilmente l’unica economia attualmente in crescita e quella più attrattiva per gli investimenti diretti esteri, che proprio nel 2020 sono aumentati notevolmente.

Ora, se ci dicono e ripetono che l’Italia, per affrontare l’emergenza sanitaria e tutto quello che questa ha provocato, ha bisogno di una personalità di altissimo livello, di un super esperto di economia e finanza, molto rispettato in Europa e senza eguali nel nostro paese, dovremmo anche credere che a livello globale per le stesse ragioni questo ruolo potrebbe dover spettare proprio alla Cina e al suo principale leader.

Il presidente Xi Jinping rivendica di aver fatto dell’eliminazione della povertà (in Cina e non solo) il suo credo, punta a costruire una “comunità globale”, “senza lasciare nessuno indietro”, invita incessantemente nelle parole e nei fatti ad una “economia aperta, innovativa e inclusiva”. Nei suoi vari interventi pubblici, oltre ad annunciare la realizzazione di un sistema di produzione industriale eco-sostenibile entro il 2035, ha espresso la volontà di un impegno attivo sempre maggiore della Cina nella governance ambientale globale, per trovare soluzioni condivise utili alla protezione dell’ecosistema. Una promessa a cui fa riscontro politiche e investimenti di Pechino sul versante delle energie pulite.

Un discorso a parte si può fare per l’Africa. Il presidente Xi vede una certa complementarietà tra il progetto delle Nuove Vie della Seta, l’Agenda 2063 dell’Unione Africana e l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Un dettaglio che ci dice molto per quanto riguarda la volontà di trovare una convergenza concreta di interessi. Attitudine già confermata con la disponibilità offerta per incoraggiare pace e stabilità nel continente nero, dove Pechino dichiara di voler continuare una cooperazione economica equa con i paesi africani, insieme a numerose e generose borse di studio, progetti bilaterali rivolti ad arte e cultura, sanità, commercio, agricoltura, ambiente, controllo e prevenzione della desertificazione, protezione della fauna selvatica.

Ci sono anche tutte le infrastrutture che la Cina ha in cantiere con gli stessi paesi africani, quelli arabi e centroasiatici per connettere tra loro via terra, aria e mare regioni strategiche del mondo, ricchissime di risorse, in particolare l’Asia Centrale con l’Africa Orientale (dove da quest’anno in poi dovrebbe cominciare e prendere forma il vecchio progetto di creare una Federazione dell’Africa orientale) e l’Oceano Indiano con il Mediterraneo. Un programma che può contare su un supporto economico-finanziario senza pari per qualità e quantità: investimenti, banche e linee di credito ad hoc, accordi di libero commercio.

L’attivismo cinese, in qualunque modo lo si voglia considerare, testimonia un attivismo destinato a sconvolgere, ancor di più di quanto non sia già avvenuto, gli equilibri mondiali, non solo in Asia e in Africa, ma anche nei paesi capitalistici avanzati. La nuova politica cinese, con l’introduzione della doppia circolazione monetaria e la diminuzione dello squilibrio a suo favore della bilancia dei pagamenti, fa dire a Xi che in Cina ci sarà posto per tutti per fare affari, soprattutto per le imprese occidentali, purché si rispettino la sovranità e la reciprocità.

È indicativo che il Sole 24 Ore, il quotidiano economico di Confindustria, si interroghi così:

«Xi, dunque, paradossi della storia, farà il paladino del libero scambio, mentre l’amministrazione americana sosterrà il protezionismo.»

Possiamo dire che questa tendenza storica può essere criticata e magari contrastata, ma certo auspichiamo che nessuno osi pensare di poterla fermare con la sopraffazione o con le minacce di guerra.

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