Ho iniziato la mia esperienza professionale di docente in un noto Liceo classico di Milano sotto i migliori auspici, con un senso di orgoglio e reverenza verso un istituto che gode della migliore fama, di una storia illustre e di un consenso pressoché unanime presso l’opinione pubblica.
Al mio arrivo di tale istituto conoscevo la storia di militanza politica, le rivendicazioni sociali degli anni della contestazione, le conquiste in materia di espressione della libertà personale conseguite da alunni noti, anche se i loro nomi sono omessi nella storia ufficiale della scuola.
Questo complesso di fattori faceva ben sperare di poter lavorare in un ambiente democratico, intellettualmente aperto al confronto, rispettoso dei diritti e della libertà del singolo in un contesto di dialettica apertura alla condivisione di idee e al conseguimento del sapere. La delusione sistematica di tutte queste ambizioni è stata tanto più forte quanto più radicata era la speranza di conseguirle.
Ciò che si avverte, in maniera netta e preponderante, in questa scuola è il concetto elitario di privilegio: non un privilegio di carattere culturale, ma eminentemente sociale ed economico, perpetuato e alimentato in ogni iniziativa proposta. L’idea generale è che gli alunni, in quanto tali, non debbano essere posti in una condizione di uguaglianza, affidati alle cure del docente in un rapporto educativo di rispetto reciproco, sebbene asimmetrico, in vista del loro sviluppo umano e culturale, bensì avvantaggiati, assecondati e tacitamente coadiuvati verso l’acquisizione di un titolo puramente formale.
Nella scuola in questione, come e più che in altre, prevale una gestione aziendale, piuttosto che educativa, e ciò che più preme è mantenere alto il numero degli iscritti, non per salvaguardare il posto di lavoro del personale docente o per mantenere alta l’offerta formativa, come si sostiene paternalisticamente, ma per mantenere alta l’immagine dell’istituto e per favorire un certo tipo di ritorno economico.
Per scongiurare flessioni nel numero di iscritti, passaggi ad altro istituto o, più schiettamente, il malcontento di famiglie economicamente e politicamente di peso, la Dirigenza attua tutta una serie di misure coercitive o addirittura punitive nei confronti di quei docenti che, mossi da onestà intellettuale e senso del dovere, vorrebbero impostare il loro insegnamento secondo i principi operanti in una scuola pubblica: uguaglianza e parità degli alunni indipendentemente dal loro ceto sociale, obiettività della valutazione, rispetto delle regole di convivenza e di comportamento, senso di responsabilità del singolo ed equità di trattamento.
Dunque, pur essendo formalmente una scuola pubblica, il Liceo attua, con i suoi alunni ed i suoi docenti, una politica riscontrabile in strutture educative di tipo privato, favorendo l’ingerenza delle famiglie nella vita didattica ed educativa della scuola.
Non appena il docente non si conforma alle aspettative delle famiglie per i più svariati motivi ( voti non sufficientemente alti, carico di lavoro oneroso, rigore nell’insegnamento, note disciplinari etc. ) la Dirigenza viene subito allertata, telefonicamente o di persona, dalle stesse per esortare l’insegnante a rientrare nei ranghi.
Premettendo che, in caso di negligenza grave, non è solo prerogativa, ma addirittura dovere della Dirigenza interloquire con il personale negligente, nei fatti, però, vi è un abuso di questa pratica anche per circostanze che non solo non hanno carattere di gravità, ma che sono l’espressione di atteggiamenti legittimi nell’ottica di una didattica sana o dell’esercizio dei diritti del lavoratore.
Pertanto, non è desueto che un docente si trovi redarguito e costretto a ritrattare la propria posizione se un suo voto o una sua misura disciplinare non incontrano il favore della famiglia dell’alunno; capita anche che gli stessi genitori interferiscano nelle scelte didattiche e metodologiche del docente con la minaccia di delazione presso la Presidenza che, qualora si verifichi, ha spesso esito favorevole per la famiglia e sfavorevole per l’insegnante.
Un discorso a parte merita la questione dei richiami informali, ossia rimproveri ai danni del docente che viene richiamato nell’ufficio di Presidenza e di cui non rimane traccia scritta, scoraggiando qualsiasi tentativo di rivalsa del lavoratore che si senta leso nella propria dignità in seguito ad accuse relative alla propria professionalità. L’iter di tali richiami segue una formula più o meno fissa: l’insegnante viene convocato da un membro del personale di segreteria, tenuto all’oscuro dell’oggetto del richiamo sino a quando non gli vengono mosse accuse molto generali di malcontento verso il suo operato, la richiesta di precisazioni circa la natura di questo malcontento cade nel vuoto. Le ragioni di biasimo sono molteplici e spesso surrettizie, talvolta si lamentano comportamenti non consoni all’ambiente scolastico, anche se essi non sono mai avvenuti, talvolta la presunta inadeguatezza del docente è una critica alle sue assenze, numericamente esigue e comprovate da certificato medico, o dovute all’adesione allo sciopero, pertanto, in totale spregio dei più elementari diritti del lavoratore. L’origine del malcontento non è sempre nota: talvolta è attribuibile alle famiglie, spesso è veicolata da lettere anonime o da fonti non specificate.
Ciò che più ferisce di tali richiami è la modalità subdola in cui essi vengono attuati: il docente, soprattutto giovane o in una posizione contrattuale debole, viene umiliato e gli viene fatto credere di essere negligente o inadeguato all’ incarico, di modo che questi, frustrato, sviluppi un senso di colpa che lo faccia desistere da qualunque forma di protesta e sia più incline a sottomettersi acriticamente alle direttive date.
Un’altra forma di compiacenza verso gli alunni, in virtù del loro status sociale, è il più totale lassismo educativo: gli studenti, nella stragrande maggioranza dei casi, non giustificano né assenze, né ritardi e possono prorogare il loro ingresso in classe sino alla terza ora di lezione nella più totale assenza di sanzioni, riservandosi di tenere debolmente conto di questi atteggiamenti in occasione dell’attribuzione del voto di condotta. In alcune occasioni percepite come festive, degli eventi di legittima licenza goliardica si trasformano in comportamenti di inciviltà e pura barbarie, con la totale connivenza di chi dovrebbe sanzionarli: l’allagamento dell’intera scuola, il vandalismo della stessa e degli ambienti antistanti l’ingresso, tali da richiedere l’intervento delle forze dell’ordine, sono stati recentemente giustificati dai vertici della scuola come un atto di contenimento della legittima esuberanza giovanile degli studenti, non solo da non da rinnegare, ma da ripetere qualora se ne presentino le condizioni.
Di tutto ciò nulla emerge all’esterno, il Liceo in questione viene copiosamente e continuamente elogiato dalla stampa nazionale come tempio degli studi classici e luogo d’elezione per la formazione delle giovani menti. La domanda è d’obbligo: se lo status socioeconomico della grandissima maggioranza degli studenti non fosse quello che è, tali azioni verrebbero compiute nell’impunità più assoluta? Se gli stessi eventi avvenissero in un altro contesto, magari in un istituto di altro ordine o in una scuola di frontiera, essi avrebbero lo stesso assenso? Questa testimonianza, interamente basata sull’esperienza personale, vuole essere un allarme verso le disuguaglianze della scuola pubblica e verso le ingiustizie a cui un’intera categoria professionale, quella dei docenti, già bistratta in termini di retribuzione e considerazione pubblica, è sottoposta quotidianamente. Quando si parla di violazioni ai danni della figura dell’insegnante, raramente vengono citati dei licei, l’attenzione mediatica è sempre rivolta a scuole tecniche o professionali. La scuola d’élite è tanto più generosa nei nostri confronti come si vorrebbe fare credere?
Ivan Slonchik
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