In occasione del 150° anniversario della nascita di V.I. Lenin, riportiamo la testimonianza del suo più stretto compagno e continuatore della sua opera, il compagno G. Stalin.
Questo prezioso articolo appariva, insieme ad altre preziose testimonianze di Stalin, nella prefazione delle Opere Scelte di Lenin in lingue estere. Dopo il XX Congresso e la degenerazione revisionistica khrusceviana tali contributi furono eliminati. Infatti nell’edizione del 1971 non appaiono.
In questo articolo Stalin trae l’essenza stessa del leninismo, del bolscevismo: la capacità di non adagiarsi sulle citazioni, ma di saperle comprendere, adattarle alla situazione reale e trasformare la teoria nella pratica rivoluzionaria. Dall’altra parte ci sono i parolai, i menscevichi, coloro che a parole si proclamano gli “ortodossi” ma che in pratica sono tutto il contrario. Coloro che non accettano la disciplina rivoluzionaria, anche quando si trovano in minoranza (ricordiamo che la parola bolscevico deriva da una parola russa che significa “maggioranza”, mentre “menscevico” da minoranza) e anzi tramano contro la maggioranza del partito per danneggiarlo e rovesciarlo. Nella pratica assumono un atteggiamento attendista e in definitiva rinunciatario, adoperandosi con la loro tattica a far perdere al partito le occasioni decisive.
Senza la guida ferma di Lenin, la Rivoluzione di Ottobre non ci sarebbe stata.
Ci ricorda Stalin:
«Nell’epoca della dominazione borghese, il partito proletario può svilupparsi e rafforzarsi solo nella misura in cui lotta, nel proprio seno e nella classe operaia, contro gli elementi opportunisti, ostili alla rivoluzione, al partito… Epurandosi, un partito si rafforza».
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LENIN, ORGANIZZATORE E CAPO DEL PARTITO COMUNISTA DI RUSSIA
in occasione del cinquantesimo anniversario della nascita di Lenin
Vi sono due gruppi di marxisti. Entrambi lavorano sotto la bandiera del marxismo e si considerano marxisti «autentici». Eppure essi sono ben lungi dall’essere identici. Anzi, un abisso li separa, poiché i loro metodi di lavoro sono diametralmente opposti.
Il primo gruppo si limita di solito al riconoscimento esteriore del marxismo, alla proclamazione solenne di esso. Non sapendo o non volendo penetrare la sostanza del marxismo, non sapendo o non volendo tradurlo nella vita, esso trasforma le tesi viventi e rivoluzionarie del marxismo in formule morte che non dicono nulla. Esso non basa la sua attività sull’esperienza, sugli insegnamenti del lavoro pratico, ma sulle citazioni di Marx. Esso non ricava indicazioni e direttive dall’analisi della realtà vivente, ma dalle analogie e dai paralleli storici. La discordanza tra le parole e gli atti: ecco la principale malattia di questo gruppo. Di qui, le delusioni e la perpetua insoddisfazione verso il destino che continuamente e regolarmente lo tradisce, si beffa di lui. Il nome di questo gruppo è menscevismo (in Russia), opportunismo (in Europa). Al Congresso di Londra il compagno Tyszka (Iogiches) ha dato una definizione abbastanza precisa di questo gruppo, dicendo che esso non parte dal punto di vista del marxismo ma si adagia su di esso. Il secondo gruppo, al contrario, trasferisce il centro di gravità della questione dal riconoscimento esteriore del marxismo alla sua attuazione, alla sua applicazione pratica. L’indicazione, in conformità con la situazione, delle vie e dei mezzi per l’attuazione del marxismo, la modificazione di queste vie e di questi mezzi quando la situazione cambia: ecco i punti a cui soprattutto questo gruppo rivolge la sua attenzione. Essa trae direttive e insegnamenti non dalle analogie e dai paralleli storici, ma dallo studio delle circostanze. Nella sua attività non si basa sulle citazioni e sulle sentenze, ma sull’esperienza pratica; controlla ognuno dei suoi passi con l’esperienza; impara dai propri errori e insegna agli altri l’edificazione di una nuova vita. Questa precisamente spiega perché nell’attività di questo gruppo la parola non differisce dall’azione e la dottrina di Marx conserva interamente la sua vivente forza rivoluzionaria. A questo gruppo si addicono pienamente le parole di Marx secondo le quali i marxisti non possono limitarsi a spiegare il mondo, ma debbono procedere oltre, al fine di trasformarlo. Il nome di questo gruppo è: bolscevismo, comunismo.
Organizzatore e capo di questo gruppo è V. I. Lenin.
La formazione del partito proletario in Russia avvenne in condizioni particolari, differenti dalle condizioni esistenti in Occidente, nel momento in cui vi si organizzò il partito operaio. Mentre in Occidente, in Francia, in Germania, il partito operaio sorse dai sindacati, nella condizione di esistenza legale dei sindacati e dei partiti, nella situazione creatasi dopo la rivoluzione borghese, quando esisteva il parlamento borghese e la borghesia, giunta al potere, si trovava faccia a faccia con il proletariato, in Russia, al contrario, la formazione del partito proletario avvenne sotto il più feroce assolutismo; nell’attesa della rivoluzione democratica borghese; quando da una parte le organizzazioni di partito rigurgitavano di elementi borghesi «marxisti legali», avidi di utilizzare la classe operaia ai fini della rivoluzione borghese e, d’altra parte, i gendarmi zaristi strappavano dalle file del partito i suoi migliori militanti, in un momento in cui lo sviluppo del movimento rivoluzionario spontaneo esigeva la presenza di un nucleo combattivo di rivoluzionari saldo, compatto e sufficientemente clandestino. capace di dirigere il movimento diretto ad abbattere l’assolutismo.
Il compito consisteva nel separare le pecore dai becchi, nel separarci dagli elementi estranei, nell’organizzare alla base quadri di rivoluzionari sperimentati, nel dar loro un programma chiaro e una tattica ferma e, infine, nel raccogliere questi quadri in un’unica organizzazione combattiva di rivoluzionari professionali, sufficientemente clandestina per resistere ai colpi dei gendarmi, ma nello stesso tempo abbastanza legata alle masse per condurle alla lotta quando fosse venuto il momento.
I menscevichi, quegli stessi che «si adagiano» sul punto di vista del marxismo, risolvevano la questione in modo molto semplice: siccome in Occidente il partito operaio ero sorto dai sindacati senza partito, che lottavano per il miglioramento delle condizioni economiche della classe operaia, anche in Russia si doveva, nella misura del possibile, procedere allo stesso modo, cioè limitarsi, per il momento, alle «lotte economiche degli operai contro i padroni e il governo» su scala locale, senza creare una organizzazione di combattimento su scala nazionale, e dopo … dopo, se nei frattempo non erano sorti dei sindacati, convocare un congresso operaio senza partito e proclamare partito il congresso stesso.
Che questo «piano» «marxista» dei menscevichi, utopistico date le condizioni della Russia, presupponesse ciò nondimeno un largo lavoro di agitazione diretto ad avvilire il concetto di partito, a distruggere i quadri del partito, a lasciare il proletariato senza il suo partito e ad abbandonare la classe operaia nelle mani dei liberali, i menscevichi, e forse anche molti bolscevichi, probabilmente, non lo immaginavano neppure.
Il più grande merito di Lenin di fronte al proletariato russo ed il suo partito è di aver rilevato tutto il pericolo del «piano» organizzativo dei menscevichi, fin dal momento in cui il «piano» era appena concepito e i suoi stessi autori ne intravvedevano con difficoltà i contorni. E denunziando questo pericolo, Lenin iniziò un violento attacco contro la rilassatezza organizzativa dei menscevichi, concentrando tutta l’attenzione dei pratici su questo problema. Si trattava infatti dell’esistenza del partito, della sua vita e della sua morte.
Creare un giornale politico per tutta la Russia, quale centro di raggruppamento delle forze del partito, organizzate alla base dei solidi quadri di partito come «formazioni regolari» del partito, cementare questi quadri attraverso il giornale, e fonderli tutti in un partito di lotta per tutta la Russia, con limiti nettamente determinati, un programma chiaro, una tattica ferma, una volontà unica: ecco il piano che Lenin sviluppò nei suoi celebri libri: «Che fare?» e «Un passo avanti, due indietro». Questo piano aveva il pregio di rispondere pienamente alla realtà russa e di generalizzare in modo magistrale l’esperienza organizzativa dei migliori pratici. Nella lotta per questo piano la maggioranza dei pratici russi seguì decisamente Lenin, senza arrestarsi dinanzi alla scissione. La vittoria di questo piano gettò le basi di quel partito comunista, compatto e temprato, di cui il mondo non conosce l’eguale.
Non di rado i nostri compagni (non solo i menscevichi) accusavano Lenin di essere troppo propenso alla polemica e alla scissione, di combattere con intransigenza i conciliatori, ecc. Indubbiamente l’una e l’altra cosa ebbero luogo a loro tempo. Ma non è difficile capire che il nostro partito non avrebbe potuto sbarazzarsi della debolezza interiore e dell’amorfismo, né avrebbe potuto raggiungere la forza e le solidità che gli son proprie, se non avesse cacciato dal suo seno gli elementi non proletari e opportunisti. Nell’epoca della dominazione borghese, il partito proletario può svilupparsi e rafforzarsi solo nella misura in cui lotta, nel proprio seno e nella classe operaia, contro gli elementi opportunisti, ostili alla rivoluzione, al partito. Lassalle aveva ragione quando diceva: «Epurandosi, un partito si rafforza». Gli accusatori si richiamavano di solito al partito tedesco, in cui fioriva allora l’«unità». Ma, in primo luogo, non ogni unità è segno di forza, e, secondariamente, basta guardare oggi il vecchio partito tedesco, diviso in tre partiti, per comprendere quanto fosse falsa e illusoria l’«unità» di Scheidemann e di Noske con Liebknecht e Luxemburg. E come sapere se non sarebbe stato meglio per il proletariato tedesco se gli elementi rivoluzionari del partito tedesco si fossero scissi tempestivamente dagli elementi antirivoluzionari … No, Lenin aveva mille volte ragione quando guidava il partito sulla via della lotta intransigente contro gli elementi ostili al partito e alla rivoluzione. Solo grazie a questa politica organizzativa, il nostro partito poté infatti raggiungere l’unità interna e la straordinaria compattezza grazie alle quali esso uscì incolume della crisi di luglio sotto Kerenski, sostenne l’insurrezione di Ottobre, attraversò senza scosse la crisi del periodo di Brest, organizzò la vittoria sull’Intesa e, infine, raggiunse quella impareggiabile duttilità, grazie alla quale riesce in ogni momento a riorganizzare le sue file e a concentrare centinaia di migliaia dei suoi membri per qualsiasi grande lavoro senza recare turbamento alla propria compagine.
Ma le qualità organizzative del Partito comunista di Russia non sono che un aspetto della questione. Il partito non avrebbe potuto crescere e rafforzarsi così rapidamente se il contenuto politico del suo lavoro, se il suo programma e la sua tattica non fossero stati rispondenti alle realtà russa, se le sue parole d’ordine non avessero infiammato le masse operaie e non avessero spinto avanti il movimento rivoluzionario. Passeremo ora a questo aspetto della questione.
La rivoluzione democratica borghese russa (del 1905) si svolse in condizioni differenti da quelle esistenti in Occidente, durante gli sconvolgimenti rivoluzionari in Francia e in Germania, per esempio. Mentre la rivoluzione in Occidente si svolse nel periodo della manifattura, quando la lotta di classe non era ancora sviluppata e il proletariato era debole e poco numeroso, non aveva un partito proprio che potesse formulare le sue rivendicazioni, mentre la borghesia era abbastanza rivoluzionaria per ispirare fiducia agli operai e ai contadini e condurli alla lotta contro l’aristocrazia – in Russia, al contrario, la rivoluzione incominciò (nel 1905) nel periodo delle macchine, quando la lotta di classe era già sviluppata, quando il proletariato russo, relativamente numeroso e reso compatto dal capitalismo, aveva già sostenuto una serie di lotte contro la borghesia, aveva il suo partito, più compatto del partito borghese, e aveva le sue rivendicazioni di classe, mentre la borghesia russa, che, dei resto, viveva delle ordinazioni del governo, era tanto impaurita dallo spirito rivoluzionario del proletariato da cercare l’alleanza del governo e dei proprietari fondiari contro gli operai e i contadini. Il fatto che la rivoluzione russa scoppiò in seguito alle disfatte militari sui campi della Manciuria, questo fatto forzò soltanto gli avvenimenti, ma non ne mutò affatto la sostanza.
La situazione esigeva che il proletariato si mettesse alla testa della rivoluzione, raccogliesse attorno a sé i contadini rivoluzionari e conducesse una lotta decisiva simultaneamente contro lo zarismo e contro la borghesia in nome della completa democratizzazione del paese e della salvaguardia dei propri interessi di classe.
Ma i menscevichi, quegli stessi che «si adagiano» sul punto di vista del marxismo, decisero la questione a modo loro: poiché la rivoluzione russa è una rivoluzione borghese, e le rivoluzioni borghesi sono dirette da rappresentanti della borghesia (vedete la «storia» delle rivoluzioni francese e tedesca), il proletariato non può avere l’egemonia nella rivoluzione russa, la direzione deve essere affidata alla borghesia russa (quella stessa che tradisce la rivoluzione); anche i contadini devono essere messi sotto la tutela della borghesia, e il proletariato deve mantenersi in opposizione di estrema sinistra.
E questi banali ritornelli da liberali da strapazzo erano presentati dai menscevichi come l’ultima parola del marxismo «autentico»!
Il più grande merito di Lenin verso la rivoluzione russa è di aver messo a nudo, sino alle radici, l’inconsistenza dei paralleli storici dei menscevichi e tutto il pericolo dello «schema della rivoluzione» menscevico, che abbandonava la causa operaia in balia della borghesia, la dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini invece della dittatura della borghesia; il boicottaggio della Duma di Bulyghin e l’insurrezione armata, invece della partecipazione alla Duma e del lavoro organico in seno ad essa; l’idea del «blocco di sinistra» dopo che la Duma si era riunita malgrado tutto, e l’utilizzazione della tribuna della Duma per la lotta fuori della Duma invece del ministero cadetti e della «salvaguardia» reazionaria della Duma; la lotta contro il partito dei cadetti, in quanto forza controrivoluzionaria, invece del blocco con esso – ecco il piano tattico sviluppato da Lenin nei suoi celebri opuscoli: «Due tattiche» e «La vittoria dei cadetti».
Il pregio di questo piano consisteva nel fatto che esso, formulando decisamente e nettamente le rivendicazioni di classe del proletariato nel periodo della rivoluzione democratico borghese in Russia, facilitava il passaggio alla rivoluzione socialista, portava in sé embrionalmente l’idea della dittatura del proletariato. Nella lotta per questo piano tattico, la maggioranza dei pratici russi seguì decisamente e risolutamente Lenin. La vittoria di questo piano gettò le basi della tattica rivoluzionaria grazie alla quale oggi il nostro partito scuote le fondamenta dell’imperialismo mondiale.
Lo sviluppo ulteriore degli avvenimenti, i quattro anni della guerra imperialista e il fatto che tutta l’economia nazionale era scossa; la Rivoluzione di Febbraio e il famoso dualismo del potere – da un lato il Governo provvisorio come focolaio della controrivoluzione borghese, dall’altro lato il Soviet di Pietrogrado come forma embrionale della dittatura proletaria – la Rivoluzione di Ottobre e lo scioglimento della Costituente; l’abolizione del parlamentarismo borghese e la proclamazione della Repubblica dei Soviet; la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile; l’intervento dell’imperialismo mondiale, di concerto con i «marxisti» a parole, contro la rivoluzione proletaria; e, infine, la situazione pietosa dei menscevichi, aggrappati all’Assemblea costituente, buttati a mare dal proletariato e sospinti dalle ondate della rivoluzione sulle rive del capitalismo – tutto ciò non ha fatto che confermare la giustezza dei princìpi della tattica rivoluzionaria formulata da Lenin nelle «Due tattiche». Il partito, possedendo una tale eredità, potrebbe avanzare arditamente senza temere gli scogli subacquei.
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Nel nostro periodo, che è un periodo di rivoluzione proletaria, quando ogni parola d’ordine del partito e ogni frase del capo è sottoposta alla prova dei fatti, il proletariato ha particolari esigenze verso i suoi capi. La storia conosce dei capi proletari, capi dei tempi burrascosi, capi pratici, di grande coraggio e di grande abnegazione, ma deboli nella teoria. Le masse non dimenticano tanto presto il nome di simili capi. Tali sono, per esempio, Lassalle in Germania, Blanqui in Francia. Ma il movimento nel suo insieme, non può vivere di sole memorie: esso ha bisogno di uno scopo (programma) chiaro, d’una linea ferma (tattica).
Vi sono anche capi di altro genere, capi dei tempi di pace, forti nella teoria, ma deboli nell’organizzazione e nel lavoro pratico. Tali capi sono popolari solo fra gli strati superiori del proletariato e solo fino a un determinato momento; quando si apre un’epoca rivoluzionaria, quando si richiedono dai capi parole d’ordine pratiche rivoluzionarie, i teorici lasciano la scena, cedendo il posto a gente nuova. Capi siffatti sono, per esempio, Plekhanov in Russia e Kautsky in Germania.
Per mantenersi al posto di capo della rivoluzione proletaria e del partito proletario occorre unire in sé la potenza teorica e l’esperienza pratica organizzativa del movimento proletario. P. Axelrod, quando era marxista, scriveva di Lenin che egli «riuniva felicemente in sé l’esperienza di un buon pratico alla preparazione teorica e a un vasto orizzonte politico» (si veda la prefazione di P. Axelrod all’opuscolo di Lenin: «I compiti dei socialdemocratici russi»). Non è difficile indovinare che cosa direbbe ora di Lenin il signor Axelrod, ideologo del capitalismo «civile». Ma per noi che conosciamo Lenin da vicino e possiamo esaminare obiettivamente la cosa, è indubitabile che queste vecchie doti si sono completamente conservate in Lenin. E qui, fra l’altro, bisogna cercare la spiegazione del fatto che Lenin, e lui precisamente, è oggi il capo del partito proletario più forte e più temprato del mondo.
Pubblicato nel giornale «Pravda», n. 86.
23 aprile 1920,
G: Stalin, «Lenin», pp. 3-16
Per la traduzione abbiamo ripreso quella della rara edizione delle Opere scelte in due volumi, Ed. italiana, Mosca 1946. Ci siamo permessi solo di cambiare il nome di Pietroburgo in quello di Pietrogrado, seguendo quello della traduzione apparsa nelle Opere Complete di G. Stalin, perché più corretto storicamente.