STORIA E PROBLEMI DEL PCI

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STORIA E PROBLEMI DEL PCI

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STORIA E PROBLEMI DEL PCI

del direttore Alessandro Pascale
Trascrizione della relazione a cura di Giorgia Barone

 

Il testo che segue è la relazione tenuta dal sottoscritto Alessandro Pascale, responsabile nazionale Formazione del Partito Comunista, nell’ambito della scuola popolare di formazione politica Antonio Gramsci. La presentazione è stata fatta a Milano il 4 giugno 2023 presso i locali della cooperativa Labriola. È disponibile la registrazione video caricata sulla pagina youtube del Partito Comunista Milano (@ pcmilano)[1].

 

LE RAGIONI DELLA NASCITA DEL PARTITO COMUNISTA D’ITALIA

Oggi siamo qui per parlare della storia e dei problemi del Partito Comunista Italiano. Un tema molto denso perché si tratta di ripercorrere anche la storia di questo paese per circa settant’anni. Darò dunque per scontata la gran parte della conoscenza storica generale, per concentrarmi sulle questioni specifiche del Partito. Partiamo dalle origini del Partito Comunista d’Italia, perché è così che inizialmente si chiamava. Come sappiamo, nel Novecento comunisti sono coloro che si riconoscono nelle conquiste della rivoluzione d’Ottobre e poi nei successi conseguiti dallo Stato socialista dei Lavoratori, cioè l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Su questo abbiamo già detto molto, però vale la pena ricordare alcuni aspetti fondamentali: l’Unione Sovietica fu creata grazie agli sforzi e ai sacrifici dei popoli compresi nell’ex impero russo, che hanno saputo respingere una controrivoluzione aristocratica e borghese capeggiata dalle armate bianche zariste sostenute da contingenti militari di una quindicina di stati invasori, tra cui anche l’Italia; una guerra che viene ricordata riduttivamente come una guerra civile, a causa dei suoi circa 7 milioni di morti, ma la cui primaria responsabilità va soprattutto alla Francia e all’Inghilterra, che hanno tentato con ogni mezzo possibile di distruggere sul nascere quell’esperimento rivoluzionario proletario. In questo contesto i bolscevichi hanno costruito nel 1919 la Terza Internazionale, il Comintern, facendo appello a tutti i popoli del mondo, soprattutto a quelli coloniali, a spezzare le proprie catene, ma anche a tutti i lavoratori d’Europa a imbracciare i fucili per “fare come in Russia”. Questa era una delle parole d’ordine che significava conquistare il potere politico attraverso un processo rivoluzionario. Sono gli anni in cui si esce dalla prima guerra mondiale, un massacro che ha fatto almeno 10 milioni di morti e altri 20 milioni di feriti. Nel 1918 termina questo conflitto, torna la pace militare, ma non la pace sociale, e in tutta Europa il popolo alla fame e in povertà rivendica migliori condizioni di vita e lotta, ispirandosi all’esempio della Russia; interi reparti militari all’epoca si rivoltano in quello che prende il nome di biennio rosso, caratterizzato da un’intensa conflittualità sociale: manifestazioni, scioperi, occupazioni di fabbriche e in generale dei luoghi di lavoro, disobbedienza generalizzata nei confronti dei governi borghesi.

In Ungheria si forma per un breve periodo un governo sovietico che verrà poi distrutto sul nascere dalla reazione borghese; tentativi rivoluzionari si hanno anche in Germania, sostenuti dalla Lega di Spartaco e poi dal Partito Comunista sulla spinta del Comintern. In questo contesto, anche in Italia su impulso dell’Ordine Nuovo (un giornale guidato da Antonio Gramsci) la parte più cosciente del movimento operaio arriva a intensificare più volte lo scontro con occupazioni di fabbriche e l’armamento degli operai. A Torino si arriva a occupare perfino la FIAT, con tutta una serie di episodi pre-insurrezionali che non diventano rivoluzionari solo a causa di quello che viene ricordato come “l’attendismo”, la moderazione e possiamo dire anche l’incapacità politica dei vertici sindacali (la CGIL a guida “riformista”) e politici (il Partito Socialista Italiano in mano a quelli che all’epoca si chiamavano i “massimalisti”). I comunisti in Italia nascono in quel momento – dalla scissione di Livorno del 21 gennaio 1921 – per adempiere alla necessità storica di far uscire il paese dalla crisi attraverso una rivoluzione socialista, in mancanza della quale sarebbe stata inevitabile una durissima reazione borghese, che già stava cominciando a profilarsi. La Chiesa, che fino a quel momento non aveva riconosciuto lo Stato italiano a seguito dell’occupazione di Roma avvenuta nel 1870, decide di rompere il Non-Expedit, cioè il mancato riconoscimento politico, e scendeva apertamente in campo organizzando in fretta e furia il Partito Popolare Italiano al fine di sottrarre i voti dei lavoratori cattolici ai socialisti. Nel frattempo Mussolini si era ripresentato ai socialisti con la facciata rivoluzionaria dell’illusorio Manifesto di San Sepolcro (1919), un documento in realtà populista e opportunista che ben presto sarà accompagnato dai manganelli delle squadracce fasciste contro i comunisti e gli operai.

 

I PIÙ FIERI E COERENTI OPPOSITORI DEL FASCISMO

Di fronte al fascismo i comunisti sono stati i più coerenti oppositori per tutta la durata dell’esistenza del regime. Hanno forse peccato di settarismo non appoggiando a sufficienza l’esperienza degli Arditi del Popolo che si configurava come la possibilità di costruire direttamente sul campo di battaglia un braccio armato del proletariato che comprendeva comunisti, socialisti e perfino anarchici. Insomma un po’ tutta la sinistra conflittuale dell’epoca che stava riuscendo a dare delle risposte efficaci alla violenza dei fascisti. Violenza che chiaramente si svolgeva con la connivenza delle autorità politiche e delle forze dell’ordine. I comunisti hanno fatto qualsiasi sacrificio possibile per cercare di mantenere una forma di opposizione politica e culturale nel paese. In tal senso hanno fatto anche degli intelligenti compromessi: ad esempio dando indicazioni agli insegnanti comunisti, ma anche a quelli progressisti e sinceramente democratici, di accettare di fare il giuramento di fedeltà al fascismo, perché era certamente preferibile che a educare le future generazioni ci fossero docenti con una certa coscienza politica, piuttosto che dei reazionari o magari dei preti. Si è poi molto polemizzato anche sull’appello fatto dal Partito ai “fratelli in camicia nera” nel 1936, nel momento cioè di massimo consenso interno verso il regime; sicuramente una manovra tattica discutibile e peraltro non condivisa da Togliatti, che da Mosca redarguì severamente il Comitato Centrale che aveva approvato il documento politico in questione. Tutto ciò però non intaccò minimamente l’obiettivo strategico che rimaneva quello di cercare di conquistare consensi, avvicinare lavoratori per abbattere il fascismo; una tattica che passava da questo tentativo di ottenere ascolto tra settori sociali più conflittuali, ideologicamente anticapitalisti che erano marginali e poco influenti, ma erano presenti soprattutto in alcuni settori del sindacato e in alcune organizzazioni giovanili del regime. D’altronde la linea mussoliniana fu abbastanza rapida a eliminare le anomalie più vistose riducendole rapidamente al silenzio.

 

ANALISI GRAMSCIANA E ANALISI TOGLIATTIANA DEL FASCISMO

Erano questi gli anni in cui Togliatti realizzava delle imprescindibili lezioni sul fascismo, approfondendo l’analisi marxista di questo fenomeno, che era iniziata già con Gramsci con le Tesi di Lione del 1926, in occasione di un congresso tenuto semi-clandestinamente. In quell’occasione Gramsci definisce il fascismo come un “movimento di reazione armata che si propone lo scopo di disgregare e disorganizzare la classe lavoratrice per immobilizzarla”, secondo il classico “quadro della politica tradizionale delle classi dirigenti italiane, e nella lotta del capitalismo contro la classe operaia”. Togliatti rispetto a questa analisi aggiungeva degli elementi ulteriori – in primo luogo il carattere di massa del fascismo:

“molte volte il termine fascismo viene adoperato in modo impreciso, come sinonimo di reazione, terrore, ecc. Non è giusto… Dobbiamo adoperar[lo] soltanto allorquando la lotta contro la classe operaia si sviluppa su una nuova base di massa con carattere piccolo-borghese […]. In queste sue definizioni la socialdemocrazia partiva esclusivamente dal carattere piccolo-borghese di massa che effettivamente il fascismo aveva assunto. […] Bordiga sbagliava quando domandava con disprezzo: perché dobbiamo lottare per le libertà democratiche? […]. È un errore pensare che il totalitarismo ci precluda la via della lotta. È un errore pensare che il totalitarismo chiuda alle masse la via alla lotta per delle conquiste democratiche. È un errore. Su questo terreno il fascismo tenta di portarci. Esso tenta di farci credere che tutto sia finito, che si sia entrati in un nuovo periodo nel quale non ci sia nulla da fare che mettersi sul suo terreno… Il totalitarismo non chiude al partito la via della lotta ma apre vie nuove. Sbagliamo noi che non sempre riusciamo a comprendere rapidamente le vie nuove che il fascismo ci apre per la lotta. È questo un difetto di analisi e di incapacità politica. Ma nella misura che il partito riesce a comprendere ciò esso riesce a mettere in discussione il problema della dittatura fascista”.

Questo ragionamento risulta molto attuale visto che stiamo tornando a bollare questo sistema come una forma moderna di totalitarismo.

 

LA REPRESSIONE POLITICA

Sono abbastanza noti i dati della repressione politica dei comunisti, però è sempre bene ribadirli per ricordare che i comunisti sono stati i più perseguitati politicamente durante il fascismo. Ricordiamo a tal riguardo l’azione svolta dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato controllato di fatto dal PNF e dotato di ampi poteri repressivi. Tra il 1° febbraio 1927 e il 25 luglio del 1943 questo tribunale ha processato 5.619 imputati, condannandone 4.596. Gli anni totali di prigione inflitti sono stati più di 27.000; 42 le condanne a morte, di cui 31 eseguite, 3 gli ergastoli, praticamente 4.500 processati, quasi tutti, erano uomini; 122 le donne, quasi 700 i minorenni. Tra le categorie professionali vediamo come la stragrande maggioranza, quasi 4.000, fossero operai e artigiani, poco più di 500 i contadini, 200 circa i liberi professionisti. I deportati o nelle isole in piccoli comuni, soprattutto nel Mezzogiorno, dove erano sottoposti a libertà vigilata invece sono stati più di 10.000. C’erano poi ancora più di 16.000 persone giudicate ostili al regime dalla polizia politica e in quanto tali soggette a diverse misure di sicurezza e di repressione. Vediamo subito come la stragrande maggioranza dei perseguitati politici fosse costituita da comunisti (l’80%). I comunisti condannati dal tribunale speciale furono 4.040, per complessivi 23.000 anni di galera e tra questi la quasi totalità dei dirigenti che è finita in carcere; tra questi il più illustre è stato il segretario Antonio Gramsci, che morirà in prigionia nel 1937 rifiutandosi fino all’ultimo di chiedere la grazia a Mussolini, nonostante gli sforzi di Mosca e di Togliatti di salvargli la vita.

Il lascito di questa prigionia come sappiamo è l’opera fondamentale di Gramsci:
I Quaderni dal Carcere.

Nonostante questa persecuzione, il Partito Comunista d’Italia è stato l’unico partito a mantenere, seppur con enormi difficoltà, una rete clandestina operativa nel paese, realizzando anche una certa infiltrazione nelle organizzazioni di massa fasciste. Questo ad esempio è stato il ruolo svolto dal giovane Eugenio Curiel, che sarà poi tra i fondatori e i massimi dirigenti nel 43 del “Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà”, un’organizzazione praticamente sorta per volere del partito.

 

OBIETTIVI DEL FASCISMO E DEL COMUNISMO A CONFRONTO

Sembra utile ricordare, vista la propaganda martellante di questi anni, i differenti obiettivi del fascismo e del comunismo: mentre il regime fascista reimponeva il modello patriarcale misogino e maschilista con cui si chiedeva alle donne di essere “casa e chiesa”, fare figli e lasciare i propri posti di lavoro, i comunisti portavano ad esempio la figura di Camilla Ravera, di fatto la prima donna a diventare per un breve periodo segretario del Partito Comunista, finendo poi anche lei più volte in prigione e confinata dal regime. Ricordiamolo questo perché interessa quantomeno la metà della popolazione: i comunisti sono stati gli unici che potevano dare alle donne italiane un paradigma diverso di società, essendo a quel tempo la parità totale di genere sul piano dei diritti civili e sociali presente soltanto in Unione Sovietica. Mentre il regime fascista distruggeva i diritti dei lavoratori, i comunisti potevano poi vantare l’esempio dell’Unione Sovietica che nel 1930 eliminava strutturalmente la disoccupazione. In Italia invece durante il fascismo, se consideriamo il periodo dal 1921 al 1939, i lavoratori perdono il 20% del potere d’acquisto rispetto ai propri salari, mostrando così l’illusorietà, il grande inganno di questo “regime corporativo”  propagandato da Mussolini e svelando la natura di classe delle politiche economiche che intensificavano lo sfruttamento operaio a vantaggio della borghesia. Non si può infine dimenticare la netta condanna comunista delle leggi razziali emanate dal regime nel 1938 con cui venivano introdotte in Italia norme perfino più severe di quelle vigenti in Germania a seguito delle leggi di Norimberga del ’35. Il tutto peraltro con la piena connivenza della Chiesa cattolica che aveva sostenuto l’ascesa dei fascisti al potere in funzione antisocialista, ottenendo come ricompensa: prima la classista Legge Gentile sulla scuola che reintroduceva obbligatoriamente in tutte le scuole del paese la religione cattolica, poi ottenendo i Patti Lateranensi con cui nel 1929 l’Italia smetteva dopo mezzo secolo di essere uno Stato laico e cedeva alla Chiesa lo Stato del Vaticano oltre a svariati privilegi di casta.

 

ANTIMPERIALISMO E INTERNAZIONALISMO PROLETARIO DEL PCD’I

I comunisti hanno condannato anche il bieco regime di sfruttamento schiavistico presente nelle colonie. Hanno condannato il colonialismo in generale, ma soprattutto hanno preso posizione contro lo sfruttamento esercitato dal regime in Somalia, Eritrea, Libia e poi in Etiopia (1935-36) in quella che fu presentata come una grande guerra “civilizzatrice”. Questa guerra andò così bene che perfino i grandi intellettuali che qualche anno prima avevano espresso dubbi sul regime, firmando anche un Manifesto degli Intellettuali Antifascisti, adesso riconoscevano i meriti del regime. Togliatti invece si dichiarava “pronto a sostenere la lotta di liberazione del popolo abissino contro i briganti fascisti”. I comunisti italiani sono stati in prima fila nella guerra civile di Spagna, che si svolse tra il ’36 e il ’39. Grazie al supporto dell’Unione Sovietica e del Comintern ci sono stati più di 5000 italiani antifascisti (la stragrande maggioranza comunisti) che si unirono alle brigate internazionali per andare a combattere contro le truppe di Franco e le stesse truppe fasciste italiane, che erano state mandate in supporto.

Il prezzo politico della fedeltà al Comintern è stato anzitutto la necessità di mantenere le proprie fila interne del partito il più possibile integre dal pericolo che si stava profilando in Unione Sovietica, cioè il pericolo che veniva dalla corrente interna trockista-bordighista. Un pericolo non tanto bordighista… è il trockismo che ha danneggiato enormemente l’Unione Sovietica. Qui approfittiamo per ricordare questo tema: negli anni Trenta di fatto si è sviluppato un grande complotto che vedeva Trockij in collaborazione tattica con i nazisti tedeschi per organizzare la caduta di Stalin e per riprendere il potere e “salvare”, secondo la sua logica, la rivoluzione. In realtà questo è stato un piano sciagurato messo in atto attraverso l’elaborazione di una fitta rete clandestina arrivata a coinvolgere perfino ministri del governo sovietico e personaggi di primissimo piano nel Partito. Come sappiamo, la scoperta di questa congiura ha portato al dramma delle Grandi Purghe, cioè all’assassino di centinaia di migliaia di onesti comunisti in una serie di esecuzioni orchestrate, non però da Stalin, come è stato detto, ma pianificate dal capo dell’NKVD Ezov: un criminale che ha trasformato un ordine politico arrivato da Mosca di fermare e verificare con un processo apposito 75 mila persone poste in arresto preventivo, in una carneficina di oltre 500 mila esecuzioni (comunque non 7 milioni come è stato detto). In questa vicenda gioca un ruolo anche Chruscev nel partecipare al gioco dei burocrati locali, che per salvarsi il posto iniziano a denunciare a caso i veri bolscevichi così da rafforzare la propria immagine con il centro di Mosca e al contempo consolidare la propria posizione sulle sezioni del partito territoriale. Quando vengono scoperti gli eccessi Ezov viene rimosso dall’incarico e dopo un rapido processo verrà condannato a morte per aver fatto parte di questa “grande congiura” che aveva appunto l’obiettivo di far cadere con ogni mezzo il governo di Stalin.

Il Partito Comunista d’Italia dovette procedere a sua volta all’epurazione dei membri che si rifiutavano di credere alla “versione di Mosca”, una versione che oggi sappiamo essere accertata storicamente. E con ciò appunto abbiamo ribadito la veridicità anche dei risultati giudiziari emersi dai processi di Mosca, che peraltro all’epoca erano creduti veri anche dall’ambasciatore statunitense.

 

IL TRATTATO DI NON AGGRESSIONE TRA URSS E GERMANIA

A questo punto approfittiamo per ricordare anche che cosa ha significato il Trattato di non aggressione tra l’Unione Sovietica e Germania.

L’adesione al Comintern ha costretto anche i partiti comunisti occidentali ad appoggiare il patto di non aggressione tra Unione Sovietica e Germania del 23 agosto 1939. Tutti i comunisti sapevano che quel patto aveva avuto perfettamente senso: l’espansionismo imperialista della Germania nazista era stato sapientemente diretto – in particolar modo della politica estera inglese – verso il proprio spazio vitale, cioè ad est: ricordiamo come siano cadute nelle mani i nazifasciste nel giro di pochi anni Etiopia, Spagna, Austria, Cecoslovacchia, Albania, e nessuna democrazia liberale ha fatto nulla per opporsi. Nel momento in cui i sovietici capiscono che dopo la Polonia  sarebbero rimasti solo loro, hanno preso saggiamente tempo prezioso per prepararsi alla guerra di difesa. Solo una settimana dopo questo patto, quando la Germania invade la Polonia, stavolta Francia e Inghilterra finalmente dichiarano guerra alla Germania. Forse avevano cominciato a sospettare che Hitler non avrebbe assolto al ruolo storico per cui era stato sostenuto, e cioè di distruggere l’esperimento nefasto dell’Unione Sovietica. Ricordiamo che c’era anche una clausola segreta del trattato Molotov-Von Ribbentrop che prevedeva la spartizione della Polonia. Dopo l’invasione tedesca, Stalin aspetta più di due settimane per vedere se la Polonia sia in grado di resistere, ma è evidente fin da subito che la situazione per il paese polacco è compromessa e solo a quel punto Stalin dà l’ordine di invadere la parte orientale della Polonia, sapendo che l’esercito polacco era praticamente già stato annientato dalla Wehrmacht e ripristinando i confini del paese precedenti all’ingiustificata aggressione polacca del 1920-21. Soprattutto con questa mossa ha impedito ai tedeschi di raggiungere direttamente il confine con l’Unione Sovietica. in questa maniera Stalin riesce a ottenere quei 200-300 km in più di territorio che sarebbero stati utilissimi in previsione di una guerra con la Germania, che si continuava a ritenere inevitabile. La storia ci dimostra che il ragionamento fu giusto, visto che le armate di Hitler si sono arrestate come sappiamo alle porte di Mosca. Senza quei 200-300 km probabilmente non saremmo qui a raccontare questa storia.

 

DAL MITO DI STALINGRADO ALLA RESISTENZA ARMATA

Il ruolo dell’Unione Sovietica nella seconda guerra mondiale è stato fondamentale anche in Italia: pensiamo anche solo all’eco della vittoria di Stalingrado che si dispiega all’inizio del 1943 e che ha un ruolo fondamentale per smuovere le fabbriche italiane. Il 5 marzo scoppia il primo grande sciopero operaio: la prima botta significativa al regime fascista. I comunisti tornano ad operare legalmente in Italia non dopo la prima caduta del regime di Mussolini, che avviene il 25 luglio del ’43, ma ancora per un mese e mezzo il governo Badoglio ha mantenuto in prigione gli antifascisti. È solo dopo l’armistizio dell’8 settembre, e quindi a seguito dell’occupazione tedesca del paese, che i comunisti italiani iniziano a organizzare la Resistenza armata. Sfruttando gli insegnamenti acquisiti in Spagna e l’addestramento ricevuto all’estero grazie ai sovietici, iniziano ad organizzare quella triplice lotta che ne avrebbe contraddistinto l’azione: 1) lotta per la liberazione della patria dall’invasore tedesco; 2) lotta per l’abbattimento di ogni forma di fascismo; 3) lotta per l’affermazione di un nuovo regime socialista. Vorrei ricordare a tale riguardo quanto ha detto Domenico Losurdo:

“Occorre tener sempre presente la lezione della Resistenza: Il Partito Comunista è diventato un forte partito di massa nella misura in cui ha saputo collegare la lotta sociale alla lotta nazionale ha saputo interpretare i bisogni delle classi popolari e al tempo stesso prendere la direzione di un movimento che lottava per la salvezza dell’Italia”.

In effetti in questa lotta i comunisti sono stati pieni protagonisti. Se pensiamo che in tutta la Resistenza Partigiana si contano 1.148 brigate e la metà di queste (575) erano brigate d’assalto Garibaldi presenti e attive in tutte le regioni italiane occupate dai tedeschi. Brigate Garibaldi che, rifiutando la tattica dell’attendismo, che caratterizzava altre formazioni, hanno combattuto sempre in prima linea contro il nemico. Oltre alle Brigate i comunisti sono stati il perno anche di altre organizzazioni: tra le tante, ricordiamo almeno i Gruppi di Azione Patriottica (GAP): “A differenza delle unità partigiane, dove venivano liberamente accolti dai Garibaldini anche i senza partito e gli aderenti ad altri partiti, nei Gap del PCI venivano reclutati esclusivamente i comunisti”. Essi infatti avevano il compito più delicato di sabotare le azioni dei fascisti e dei tedeschi nelle grandi città con azioni armate, quelle che oggi verrebbero definite “azioni terroristiche”, che in realtà appunto erano segni di resistenza partigiana, tra cui l’eliminazione dei nazifascisti. Ricordiamo gli esempi di Dante di Nanni a Torino, dei fratelli Cervi in Emilia e di Giovanni Pesce a Milano. Tra le altre organizzazioni importanti ci sono le Squadre di Azione Patriottica (SAP) che avevano compito principale, soprattutto nelle fabbriche, di organizzare il sabotaggio della produzione e gli eventuali scioperi, oltre che di collaborare con i Gap; sono state indispensabili per far uscire il grandioso sciopero operaio del 1944 (lo sciopero più grosso fino a quel momento nell’Europa occupata dai tedeschi) e sono stati indispensabili anche per coordinare l’insurrezione generale dell’anno successivo. Infine ricordiamo il ruolo dei commissari politici, decisivi nel rieducare a valori democratici e socialisti un’intera generazione di partigiani e patrioti cresciuti nel ventennio della retorica fascista. Importanti sono state le 15 “repubbliche partigiane” in cui in parallelo si è mostrato come funzionasse un modello più democratico. Alla Resistenza partigiana hanno partecipato in Italia circa 5.500 sovietici, tanto che in Friuli sorge un Battaglione Stalin nell’ambito della Divisione Garibaldi Carnia.

Ricordiamo anche il ruolo delle donne nella Resistenza partigiana: anche in questo caso le donne hanno partecipato in misura massiccia come staffette, ma anche in campo politico sanitario. In questo senso molto importante la nascita nell’autunno del 1943 dei GDD: i Gruppi di Difesa delle Donne e di assistenza ai combattenti. Le donne partecipano anche all’agitazione nelle fabbriche, organizzano scioperi, assicurano l’assistenza alle famiglie dei carcerati, dei deportati, dei caduti; organizzano il giornale “Noi Donne”, con cui iniziano a ragionare politicamente su di sé. Ma le donne combattono anche con le armi in pugno. Ricordiamo l’esempio di Carla Capponi, decorata con la medaglia d’oro al valore militare per aver partecipato alla resistenza romana e nel ’44 fu tra le organizzatrici dell’attentato di via Rasella – che non è stato fatto contro una banda di suonatori pensionati, ma contro una formazione dell’esercito tedesco – da cui poi è originato il massacro per reazione delle Fosse Ardeatine. Oltre a lei ricordiamo anche il primo distaccamento di donne combattenti sorto in Piemonte presso la Brigata garibaldina “Eusebio Giambone”, che era legata al Partito Comunista. I numeri ufficiali ANPI da questo punto di vista ci parlano di un grande impegno da parte delle donne nella resistenza: più di 35.000 partigiane; 20.000 patriote; 70 mila donne organizzate nei Gruppi di Difesa; 16 medaglie d’oro; 17 d’argento; più di 512 commissarie di guerra; quasi 700 donne fucilate o cadute in combattimento; quasi 2000 ferite; più di 4000 arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti; quasi 2000 deportati in Germania. Questi grandi sacrifici hanno portato all’ottenimento del diritto di voto che è stato decretato ancora prima della fine della guerra (1 febbraio del 1945) ed è stato fortemente voluto dal PCI di Togliatti.

 

DALL’INSURREZIONE AL REGIME DEMOCRISTIANO FILO-STATUNITENSE

Nell’arco di tempo di un anno e otto mesi infuriò questa lotta armata antifascista che coinvolse 256.000 combattenti. Secondo i dati ufficiali il 60% di questi partigiani faceva parte delle Brigate Garibaldi. Il 25 aprile questa massa riceve la parola d’ordine “Aldo dice 26×1”: le città del nord Italia vengono liberate e nella gran parte dei casi ci sono in testa i partigiani comunisti. Questo spiega l’enorme consenso popolare esploso in un’organizzazione diventata all’improvviso di massa. Nel giro di un paio d’anni, da una manciata di migliaia di membri, il Partito diventa una struttura organizzata con più di 2 milioni di iscritti.

Una delle tesi storiche che ci caratterizza è l’affermazione della sostanziale continuità tra il regime fascista e il regime democristiano; su questo vorrei far parlare alcuni numeri che ha dato lo storico Giovanni De Luna, le cifre della repressione contro il movimento operaio”:

“tra il gennaio del 1948 e il settembre del 1954 in cui si contano 75 uccisi, più di 5.000 feriti, 148.269 arrestati, più di 61 mila condanne in relazione a manifestazioni sindacali e di piazza) e il mondo della Resistenza (tra il 1945 e il 1953 vengono arrestati quasi 1.700 partigiani, di cui 1.439 comunisti, con condanne che comportano complessivamente la distribuzione di quasi 6000 anni di carcere) attribuiscono una dimensione quantitativamente rilevante a questo scenario”.

Dati che fanno impallidire qualsiasi confronto con l’epoca fascista.

Come e perché si sia giunti ad un simile livello di repressione è molto semplice da spiegare: la risposta sta nella rinnovata conflittualità tra Capitale e Lavoro e nella necessità da parte della borghesia di sventare la minaccia comunista, in un quadro che chiaramente va inserito nell’inizio della guerra fredda. Per l’intera “prima repubblica” l’Italia è stato un paese a sovranità limitata con l’applicazione di un pieno dispiegamento di politiche di destabilizzazione terroristica, in quella che è nota oggi come strategia della tensione. Già le prime elezioni politiche del 1948 hanno mostrato di fatto l’impossibilità di svolgere un normale processo democratico di fronte alle raffinate tattiche messe in campo dagli Stati Uniti d’America.

 

IL REVISIONISMO DI TOGLIATTI, “LA VIA ITALIANA AL SOCIALISMO”

A questo punto è necessario riflettere sulla politica del “Partito Nuovo” di Togliatti. All’inizio del ’43 Togliatti a Mosca concorda con Stalin la famosasvolta di Salerno”, dalle ragioni puramente tattiche, che non implicava automaticamente l’accettazione di una via differente al socialismo, ma che Togliatti metterà in atto lanciando la cosiddetta “via italiana al socialismo”. Nel Nell’aprile 1944 Togliatti sbarca in Italia, e a Salerno annuncia una “svolta”: il Partito Comunista accetta di collaborare con le altre forze antifasciste e mette da parte l’obiettivo della rivoluzione socialista, avendo come obiettivo primario cacciare dal paese tedeschi e fascisti. Passano pochi mesi e la Terza Internazionale viene sciolta per ragioni tattiche, in un contesto in cui è ormai evidente che la guerra contro la Germania sarà vinta e occorre iniziare a preoccuparsi degli anglo-americani. Questo scioglimento, che può anche considerarsi  un errore, aveva come obiettivo quello di lanciare un messaggio di distensione e rassicurazione politica nei confronti degli “alleati”. Questa manovra è importante perché, mancando un collegamento permanente con il movimento comunista internazionale, Togliatti può agire in piena autonomia e dar luogo a questa sua rilettura molto personale e strumentale della lezione gramsciana, lanciando il nuovo paradigma della conquista democratica del potere per via dell’accettazione del gioco parlamentare liberale. Non tutti sono d’accordo all’epoca. Secchia è colui che più di tutti guida l’opposizione all’interno del Partito contro questa nuova strategia. In generale però prevale la fiducia nei confronti del segretario, ritenendo che questa strategia sia stata concordata con Mosca. Di fatto c’è un’accettazione passiva della giustificazione di Togliatti sul fatto che non fosse possibile tentare una rivoluzione in Italia per la presenza di truppe statunitensi insediate nel paese. Sono passati 80 anni e le truppe statunitensi ci sono ancora; in linea teorica, seguendo questo ragionamento non c’è alcuna possibilità di fare una rivoluzione fino a che non se ne andranno: un circolo vizioso senza fine. Togliatti dimenticava o trascurava volutamente il fatto che nello stesso periodo scoppiavano rivolte antimperialiste e anticolonialiste in tutto il mondo e che le potenze imperialiste occidentali, Stati Uniti compresi, stavano facendo l’impossibile per cercare di tamponare queste rivolte, non riuscendo però a impedire l’esito vittorioso di alcune di esse (pensiamo alla Cina). Questo dimostra la debolezza dell’imperialismo dell’epoca, che non era invincibile nel momento in cui i popoli (nella gran parte dei casi guidati da organizzazioni comuniste) si rivoltavano in maniera così diffusa. Bisogna ricordare che si combatteva anche nella vicina Grecia, ma non si combatté né in Francia né in Italia che sono i due paesi dove c’erano le più forti organizzazioni comuniste che avevano guidato la resistenza nell’Europa occidentale.

 

LA DURA CRITICA DEL COMINFORM E IL RITORNO AL MARXISMO-LENINISMO

Non è un caso che nel 1947 venga creato il Cominform. Per ricontrollare il partito francese e italiano viene creato un coordinamento che comprende l’Unione Sovietica, i partiti comunisti dell’Europa orientale, e poi i partiti francese e italiano. Le durissime critiche nei confronti degli italiani e dei francesi inducono il Comitato Centrale del PCI a mettere da parte temporaneamente la via italiana al socialismo, la quale aveva portato nel frattempo Togliatti a fare degli errori tattici gravissimi: l’amnistia ai fascisti, che si poteva fare in una certa misura, ma che è stata fatta sicuramente in una maniera eccessiva; così come altro compromesso grave è stato l’accettazione dell’articolo 7 della Costituzione che riguardava l’accettazione di fatto dei Patti Lateranensi e intaccava il carattere laico del Paese. A seguito delle critiche del Cominform veniva ripristinato in ogni articolo e comunicato il primato della teoria marxista-leninista, che tornava ad essere la teoria politica di riferimento, mentre di via italiana al socialismo non se ne parla più per diversi anni.

Nel luglio del ’48 si crea la seconda grande insurrezione pre-rivoluzionaria, scatenata dall’attentato terroristico a Togliatti. Stavolta mezza Italia viene controllata nel giro di poche ore dagli operai  e dai comunisti che, senza ricevere direttive dall’alto, si muovono convinti che sia arrivato il momento della rivoluzione. Tutto il gruppo dirigente, compresa l’ala intransigente guidata da Secchia, cerca di calmare la base militante e i quadri intermedi, ritenendo che non ci siano le condizioni politiche adeguate per prendere il potere. Pochi mesi prima Secchia è stato a Mosca per chiedere supporto finanziario – concesso – e per chiedere a Stalin consigli sulla possibilità di dare avvio ad un ipotetico tentativo  rivoluzionario in caso di sconfitta elettorale in quelle che poi saranno le prime contestatissime elezioni Politiche del 1948. Stalin mostra tutti i deficit organizzativi e logistici del PCI (una critica a Secchia stesso, in quanto responsabile dell’organizzazione) e gli spiega la sostanziale impossibilità di avere successo in un tentativo del genere. Il momento storico d’altronde era cambiato: gli USA ormai avevano la bomba atomica e l’URSS non ancora. La guerra fredda stava infuocando con grandi pericoli per Mosca dando l’impressione di una Terza Guerra Mondiale nucleare imminente. Si tenga però conto che Stalin non dà degli ordini a Secchia, perché non è così che funzionavano le cose. Egli dà un consiglio di azione politica. Cosa che farà anche nel ’52, poco prima di morire, nell’ultimo congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica durante il quale disse le seguenti parole:

“La bandiera dell’indipendenza nazionale e della sovranità nazionale è stata gettata a mare: non vi è dubbio che questa bandiera toccherà a voi di risollevarla e portarla in avanti, a voi rappresentanti dei partiti comunisti e democratici, se volete essere i patrioti del vostro Paese, se volete essere la forza dirigente della nazione. Non vi è nessun altro che la possa levare in alto”.

 

DA CHRUSCEV AL TRIONFO DEI REVISIONISMI

Nel 1950 Stalin propone a Togliatti di diventare segretario del Cominform. Togliatti rifiuta perché, se diventa segretario del Cominform, deve dimettersi dalla guida del PCI. Questo fatto viene visto a posteriori come un tentativo da parte di Stalin di mettere da parte Togliatti, anche se ha una certa fiducia nelle sue capacità organizzative e forse si ritiene che sia più utile in quell’altra posizione. Fatto sta che il segretario del PCI rifiuta e nel 1956 (morto Stalin nel ’53) potrà finalmente reimbracciare apertamente la sua via italiana al socialismo. Il ’56 e l’anno appunto del XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, in cui come noto Chruscev diede avvio alla “destalinizzazione”, lasciando spazio a una riabilitazione delle cosiddette “vie nazionali al socialismo”. Di per sé è un’idea giusta: il fatto che ci debba essere un’analisi particolare di quale sia la strategia migliore per giungere al socialismo in ogni paese. Però da qui ad abbandonare i pilastri fondamentali del marxismo-leninismo ce ne passa. Si tratta di un’analisi molto difficile per cui si rischia di cadere o nel dogmatismo o nel revisionismo aperto. Di fatto però il 1956 rappresenta un momento di svolta anche per il PCI, oltre che per tutto il movimento comunista internazionale, per il semplice fatto che da quel congresso si rompe l’unità di questo movimento. C’era stata la Jugoslavia che già si era smarcata, ma in quell’anno ci sono incrinature fortissime che porteranno nel giro di pochi anni al ben più grave collasso delle relazioni tra URSS e Cina.

 

UN BILANCIO POLITICO DELLA SEGRETERIA TOGLIATTI

A questo punto è necessario fare un bilancio politico della sua segreteria. Togliatti ha preso in mano un partito (nel 1927) che all’epoca contava poche migliaia di iscritti, lo ha lasciato al successore Longo nel 1964 con un’organizzazione che contava 1.641.214 iscritti e un consenso elettorale di circa un italiano su quattro. Si tratta di numeri che parlano da soli, che mostrano gli enormi meriti storici e lo spessore politico del dirigente Togliatti. Sotto la sua leadership è stato sicuramente possibile mantenere viva una rete clandestina antifascista; nel paese è stato possibile organizzare la Resistenza partigiana, un fenomeno di massa grazie al quale è stato possibile garantire al paese una Repubblica e con una Costituzione tra le più avanzate possibili all’epoca; la stessa esistenza di una classe operaia fortemente organizzata ed educata politicamente e sindacalmente dal PCI e dalla CGIL (all’epoca sindacato conflittuale controllato di fatto dal PCI), ha posto alcune premesse necessarie per quella che sarà poi la cosiddetta grande avanzata del decennio rosso avvenuta negli anni ’70, un decennio durante il quale come vedremo il paese ha ottenuto riforme importantissime. La funzione storica quindi del PCI di Togliatti è stata quella di liquidare il fascismo e gli aspetti più retrivi della cultura clericale, educando milioni di lavoratori e di sfruttati alla democrazia, alla solidarietà e all’importanza di avere un’organizzazione politica di avanguardia. La concezione del partito di Togliatti poi è sempre stata molto rigorosa e ha tenuto conto di molti fondamentali insegnamenti di Lenin e Gramsci. Bisogna ricordare che Togliatti ha sempre ribadito l’opposizione del PCI alla NATO e alle istituzioni europee, ha denunciato le destabilizzazioni dell’imperialismo statunitense occidentale, sostenendo la lotta dei popoli coloniali; ha cercato di storicizzare la figura di Stalin rifiutando la categoria dello stalinismo nel momento in cui questa proveniva addirittura da Mosca; ha combattuto ideologicamente e culturalmente le derive e socialdemocratiche e le culture “liberali” svelando spesso e volentieri la loro ipocrisia e il loro intrinseco razzismo: di fatto ha sempre ribadito come una vera democrazia organica è possibile solo in un regime socialista.

Togliatti però è uscito nettamente dai binari del marxismo-leninismo, non tanto nel sostenere la conquista del potere per via democratico-elettorale (cosa che viene affermata poi anche dallo stesso movimento comunista internazionale a partire dalla metà degli anni ’50), ma ha sbagliato soprattutto nella convinzione che fosse possibile costruire il socialismo restando all’interno dei vincoli di quella che ha definito una “democrazia progressiva”, accettando di fatto l’internità alla democrazia liberale e rinunciando a spezzare il meccanismo dello Stato borghese. Togliatti di fatto è il vero responsabile del mancato tentativo rivoluzionario in Italia e da questo punto di vista la sua democrazia progressiva si è rivelata un’arma a doppio taglio, lasciando il potere economico e politico nelle mani della borghesia che ha potuto rimanere in sella anche nei momenti di maggiore difficoltà, per poi sferrare una decisa controffensiva politica, militare e ideologica dalla fine degli anni Settanta.

Vale la pena ricordare che cosa dice un importante intellettuale come Ferdinando Dubla:

“gli epigoni togliattiani hanno interpretato le linee politiche e l’analisi di Togliatti in senso progressivamente opportunista; se nel ’35 il problema era la transizione al socialismo già dal ’43-44 il problema diventa la transizione a una ‘democrazia più avanzata‘. Togliatti costruisce un percorso che nei fatti rinuncia alla prospettiva del potere politico in cambio di un equilibrio contrattuale che mira a rivendicare spazi di conquista dei diritti per le masse lavoratrici. Il concreto riformismo, abiurato a parole è la prassi effettiva del PCI dal 1956 in avanti. Gramsci aveva rintracciato nella categoria della “Guerra di posizione” il perno della transizione per la conquista del potere politico del proletariato, Togliatti considera la strutturazione di trincee avanzate nella società civile e di casematte come equilibrio da spostare in avanti per la contrattazione riformista. Manca di elaborare il nesso tra la prospettiva interna e la strategia internazionale per la rivoluzione socialista”.

Bisogna infine ricordare il tema della cosiddetta Gladio Rossa, rimasta sempre attiva per tutta l’epoca della segreteria togliattiana. Una struttura paramilitare di una certa ampiezza, la quale era pronta a reagire nel caso di un golpe militare diretto chiaramente dalla borghesia o dagli USA. Ricordiamo la testimonianza di Francesco Cossiga, uno dei più importanti democristiani della prima Repubblica, nel 1997 davanti alla “Commissione Stragi”:

“Si trattava di una struttura difensiva del Partito comunista. Non è stata considerata illegale in quanto era una struttura puramente difensiva, nell’ipotesi in cui potesse verificarsi una rivoluzione autoritaria. Se io fossi stato un dirigente del Partito Comunista avrei fatto lo stesso”. “Quando mi sono chiesto per quale motivo il Partito comunista non si sia impadronito del potere con la forza, dato l’alto grado di penetrazione che aveva in tutti gli apparati dello Stato. La spiegazione è stata solo una: la scelta irrevocabilmente democratica e parlamentare fatta da Togliatti e la divisione del mondo in due. Lo Stato italiano non sarebbe stato assolutamente in grado di impedire una presa del potere per infiltrazione o per violenza da parte del Partito comunista. La scelta Democratica e parlamentare di Togliatti (la ‘via nuova’) era irrevocabile”.

Togliatti aveva sicuramente ben chiaro che anche una qualsiasi ipotetica vittoria elettorale comunista ottenuta in maniera democratica avrebbe richiesto di essere difesa militarmente, perché ci sarebbe stata una controrivoluzione operante sotto forma di destabilizzazione da parte soprattutto dell’imperialismo USA e che in Italia poteva contare eventualmente su un blocco sociale fondato su sull’accordo strategico tra Democrazia Cristiana, Mafia, Chiesa, Confindustria e in generale i settori più retrivi e reazionari della società.

 

GLI ANNI DI BERLINGUER

Arriviamo fino a quelli che conosciamo appunto come con gli “anni di piombo” o il “decennio rosso. Analizzare la storia di questo decennio richiederebbe una conferenza a sé, quindi la diamo per fatta e ricordiamo solo che sono anni di grandi conquiste operaie; nel finale  diventano gli anni della controffensiva borghese; sono gli anni dello stragismo; anni in cui la NATO aveva già i piani di golpe nel caso che nel ’76 i comunisti avessero vinto le elezioni; sono gli anni del caso Moro su cui pesano fortissimamente le responsabilità degli Stati Uniti, e sono gli anni, per quanto riguarda il Partito Comunista Italiano, della segreteria di Berlinguer. Vorrei cominciare ricordando cosa dice la commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia nel 2001: “nel 1975-77 perfino il PCI si espresse per l’accettazione della NATO sia pure con forti ambiguità nel gruppo dirigente e marcate resistenza della base”. Questo punto è centrale nella nostra analisi ma vi ricorderei anche che cosa dice sul tema Costanzo Preve

“nel decennio decisivo 1964 -1973 il Partito Comunista Italiano diventa uno strumento diretto per l’integrazione di grandi masse studentesche ed operaie nel sistema capitalistico. La dinamica profonda era quella della integrazione in un capitalismo dei consumi. Gli studenti confusero un processo di modernizzazione del costume per un processo anticapitalistico, e questa confusione fu propiziata da una ideologia invecchiata che identificava la borghesia con il capitalismo e non capiva che il capitalismo maturo, per poter allargare il proprio spazio di mercificazione universale, deve far fuori lui stesso i vecchi residui moralistici borghesi tradizionali. È questa la chiave del balzo in avanti elettorale del PCI dal 68 al 76. Il PCI garantiva alla piccola borghesia una stabile modernizzazione e liberalizzazione del costume contro i residui del tradizionalismo clericale e alla nuova classe operaia di recente immigrazione garantiva un processo graduale di integrazione nella società. In assenza di qualunque prospettiva rivoluzionaria […] era il massimo che si poteva ottenere e il PCI contribuì a ottenerlo. Dunque nessun tradimento sociale e politico. Il tradimento però ci fu lo stesso e fu un tradimento culturale terribile. In una parola: il graduale processo di modernizzazione del costume e di integrazione sociale delle classi popolari nel capitalismo fu fatto passare per una sapiente ‘via italiana al socialismo’ e addirittura per ‘eurocomunismo’”.

 

UN BILANCIO POLITICO DELLA SEGRETERIA BERLINGUER

Berlinguer è un personaggio che nel bene e nel male viene ricordato ancora come l’ultimo grande dirigente comunista di questo paese, però bisogna cercare di tracciare un quadro meno agiografico della sua figura, segnalando non solo gli aspetti positivi, ma anche quelli negativi.

I suoi meriti:

  • il fatto di aver portato il PCI al 34% del consenso nelle elezioni politiche del 1976. Con questa massa politica critica ha potuto diciamo garantire (permettendosi anche una posizione a volte di opposizione o di astensione da sinistra) alcune conquiste fondamentali come lo Statuto dei lavoratori, la Scala Mobile, il Servizio Sanitario Nazionale, l’aborto, il divorzio, i salari più elevati d’Europa; il fatto che la NATO avesse già pronti i piani di golpe nel ’76 evidenzia come il PCI costituisse ancora un pericolo per gli interessi dell’imperialismo internazionale.
  • Viene ricordato giustamente il grande spessore politico, morale e umano dell’uomo Berlinguer. L’animo e lo stile di vita proletario nelle vicende private e nel modo di fare politica.
  • Avere saputo anticipare la questione morale almeno un decennio prima dello scandalo di Tangentopoli, denunciando la cosiddetta partitocrazia (lo “splendido isolamento” degli anni ’80).
  • Ha saputo riconoscere i propri errori e ha avuto la capacità di invertire la rotta. Soprattutto nell’ultima fase della sua segreteria (’79-84) quando è stata abbandonata la politica della “solidarietà nazionale”, tornando a proporre un’alternativa di classe sostenendo in prima persona le lotte degli operai della FIAT e, quasi da solo, la necessità di tenere un referendum sulla “scala mobile” contro le abrogazioni imposte dal governo Craxi.
  • Berlinguer non ha mai voluto abbandonare l’idea che il PCI dovesse restare un partito dotato di una cultura marxista e ha rifiutato la svolta verso un modello socialdemocratico.
  • Ha posto la questione di un sempre maggiore nesso tra democrazia e socialismo e il tema poteva e doveva essere accolto per tempo dall’Unione Sovietica, in termini però diversi da quelli posti dal segretario del PCI. Infatti se quest’ultimo la intende come un ridare valore alla democrazia liberale borghese, al pluripartitismo, il PCUS avrebbe invece dovuto coglierne il messaggio della necessità di una maggiore lotta contro la burocratizzazione, contro il verticismo gerarchico e contro le sempre maggiori diseguaglianze interne, cercando gli strumenti per un maggiore coinvolgimento degli strati popolari più coscienti e lavorando al miglioramento del livello politico e ideologico di quelli meno coscienti della popolazione.
  • Infine Berlinguer ha il merito di aver introdotto per primo un tema importante come quello dello sviluppo umano eco-sostenibile, che è cosa diversa dal mero aumento quantitativo dall’accumulazione infinita delle merci. Nei discorsi del 1977 presenta una concezione dell’austerità che non prevede di impoverire i lavoratori, bensì di mettere in guardia dall’idea che la felicità individuale passi dal mero consumismo sfrenato, mettendo quindi in guardia dalla corrispondenza tra il progresso e l’accettazione di ogni bisogno indotto dalla società capitalistica. Il tema è molto moderno e all’epoca era stato posto da Pasolini.

I suoi grandi errori:

  • Anzitutto sotto la sua segreteria sono avvenuti i maggiori cedimenti ideologici (soprattutto economici) che non riguardano solo una parte del partito (l’ala migliorista guidata da Napolitano, che si sarebbe dovuta cacciare subito e invece si rafforza in maniera decisiva proprio in quegli anni) ma l’intero partito. Gli anni ’70 sono il periodo in cui il PCI è ossessionato dalla legittimazione governativa, tanto che si può tranquillamente recuperare la categoria marxiana di cretinismo parlamentare; sono gli anni della politica del compromesso storico (dal ’73 al ’76) che non prevede l’alleanza con la DC, almeno formalmente, ma l’alleanza con tutte le forze democratiche antifasciste, proposta all’indomani dell’11 settembre del 1973, cioè del golpe avvenuto in Cile da parte di Pinochet. Questa politica del compromesso storico poteva avere un senso dal punto di vista meramente tattico per guadagnare consensi elettorali. In realtà è diventata una svolta strategica, tant’è che è confluita nella stagione della solidarietà nazionale tra il ’76 e ’79; un periodo che segna il termine di un processo di crescita ininterrotta nel consenso sociale e un periodo durante il quale il partito si è alienato le simpatie di milioni di lavoratori perdendo il contatto con movimenti giovanili studenteschi.
  • L’incapacità di aver saputo crescere una nuova leva di dirigenti.
    Fassino, D’Alema, Mussi, Vendola, Bassolino, Turco, Occhetto e molti altri sono tutti stati “allevati” sotto la segreteria Berlinguer.
  • Nel 1974 Berlinguer decide di smantellare formalmente l’impianto para-militare clandestino del PCI, quello che di fatto era la “Commissione Antifascismo”. Questo fatto rende palese come la via democratica al socialismo non sia quindi un passaggio tattico ma è una questione strategica per quella segreteria. Ciò ha favorito la destabilizzazione interna e internazionale, privando il partito di uno strumento importante. Bisogna tenere presente che questo passaggio è avvenuto nei delicatissimi anni dalla strategia della tensione. Lo stesso errore compiuto da Allende in Cile (aveva deciso di non armare il popolo) con l’aggravante che Allende non aveva a disposizione una “gladio rossa” già pronta.
  • La critica all’Unione Sovietica e al socialismo reale in una certa misura era giusta, ma per come è stata posta si è spinta ad un livello inaccettabile, portando il PCI a rompere con i paesi e le relative organizzazioni operaie alleati. Berlinguer di fatto ha portato il partito fuori dal movimento comunista internazionale, preparando nei fatti il suo ingresso nel campo della socialdemocrazia europea.
  • La fallimentare politica dell’eurocomunismo, che ha legittimato la NATO e avallato l’idea che si potesse costruire un’Europa dei popoli. È evidente l’inadeguata applicazione della categoria leninista dell’antimperialismo.
  • Tutto questo ci accompagna a un progressivo revisionismo ideologico che ha portato all’abbandono formale del marxismo-leninismo, cosa che avviene nel XV congresso del ’79, quando viene modificato lo statuto, eliminando nell’articolo 5 i riferimenti all’ideologia marxista-leninista.
  • Infine Berlinguer ha difeso senza riserve lo Stato borghese durante la stagione del caso Moro, diventandone di fatto il primo difensore, connivente con chi voleva Aldo Moro morto. Non era obbligato a fare questo, soprattutto se pensiamo che c’era chi come Craxi sosteneva la necessità di avviare trattative, oppure Sciascia che sosteneva di non essere né con lo Stato né con le BR.

Leggerei di nuovo un breve punto formulato da Costanzo Preve per descrivere il PCI uscito da questi anni 70: “il PCI degli anni ’80 è un partito senza teoria, senza strategia e senza tattica. Un povero bestione barcollante che trova inevitabilmente nella deriva identitaria il solo collante che possa dare ancora senso di appartenenza ai militanti e agli elettori smarriti”. Anche Domenico Moro ha dato complessivamente una chiave di lettura interessante sul PCI e soprattutto sulla via italiana al socialismo:

“la vita italiana socialismo basata su un percorso progressivo pensato attorno alle riforme di struttura e all’attuazione della Costituzione, si fondava sull’esistenza di un forte campo socialista, guidato da una rispettata Unione Sovietica, su una fase espansiva dell’economia, con una forte presenza dello Stato nell’economia e soprattutto su una forma ancora prevalentemente nazionale del capitalismo e parlamentare di governo. Tutti aspetti questi che sono venuti a modificarsi tra la metà degli anni 70 e la fine del secolo scorso. Inoltre ci sono stati importanti errori politici e cedimenti di carattere ideologico. Le vicende cilene furono interpretate come la dimostrazione dell’impossibilità di governare con il 51%, passando così dalla strategia dell”alternativa di sinistra’ a quella dell”alternativa democratica’. Importanti concessioni dalla linea dell’austerità fino al riconoscimento della NATO. In questo modo il PCI rinunciava all’opposizione senza che fossero cadute le riserve nei suoi confronti. Il PCI fallì la sua strategia governista, alienandosi molte simpatie”.

In definitiva noi riconosciamo sicuramente a Berlinguer uno spessore ad uno statuto politico importanti, ben superiori alla media dei dirigenti politici comunisti a lui successivi. Ciononostante occorre affermare che la netta degenerazione del PCI ha subito un’accelerazione decisiva durante gli anni della sua Segreteria. Il PCI di Togliatti è un partito che si pone ancora su una linea di netta alternatività di classe, in senso antimperialista e che si propone di costruire il socialismo secondo una via pacifista (ma tutelandosi con un apparato paramilitare alle spalle). Quest’ultima modalità, pur risultando revisionista rispetto al leninismo è pur tuttavia legittimata ormai dallo stesso movimento comunista internazionale dell’epoca. L’ottica è quella di costruire una democrazia più “progressiva” che ponga l’Italia fuori dalle strutture imperialiste (la NATO e la CEE), ricostruendo politiche economiche progressive sulla base del nesso tra sovranità popolare e sovranità nazionale. A suo modo la posizione di Togliatti, considerato il contesto, è ancora su posizioni di un “riformismo rivoluzionario”, soprattutto per un paese posto sotto l’egida degli Stati Uniti.

Il PCI di Berlinguer, se facciamo un confronto, è invece un Partito che abbandona tutti gli aspetti progressivi ancora presenti sotto Togliatti, diventando di fatto e nella sostanza un partito socialdemocratico moderno, cedendo non solo sul leninismo e sull’appartenenza internazionale al movimento comunista, ma addirittura su alcune categorie marxiste fondamentali, lasciando progressivamente campo aperto a ideologie alternative fondate su logiche corporative, aclassiste, morali e perfino cristiane. Perfino l’antimperialismo, ribadito formalmente nei discorsi e in molti atti concreti di solidarietà internazionale, si dissolve nella sciagurata idea di poter “democraticizzare” le istituzioni imperialiste europee secondo una logica totalmente antileninista, che come sappiamo è presente tutt’oggi nella sinistra di classe, in una parte del movimento comunista creando dunque dei danni di lungo termine (per mezzo secolo potremmo dire). Tutto questo ha fatto dimenticare l’elaborazione precedente che, come abbiamo visto negli altri incontri, partiva dalle polemiche poste da Lenin a Rosa Luxemburg sul concetto degli “Stati Uniti d’Europa” – già negli anni della prima guerra mondiale – sostenendo che sotto il capitalismo sarebbero stati  un’organizzazione imperialista deleteria per i popoli.

È chiaro che non possiamo ascrivere la crisi della sinistra italiana solo a Berlinguer, però anche lui ha grosse responsabilità. Sarebbe opportuno prenderne atto, rifuggendo da questa pantomima del ritratto agiografico che ormai risulta inutile. Per noi rimane un compagno in buona fede, che come tutti gli altri comunisti della storia, ha saputo dare contributi utili e altri meno utili, nel bene e nel male.

 

LE MOLTEPLICI ORIGINI DELLA DEGENERAZIONE DEL PCI

Uso il termine degenerazione anche se qualcuno dice che non si dovrebbe utilizzare, perché è un termine forte, infatti in passato si utilizzava il termine più neutro “mutazioni genetiche”. Però la degenerazione c’è stata ed è innegabile. Basta ricordare il sarcasmo di Costanzo Preve che ha pubblicato un saggio intitolato Da Gramsci a Fassino. Alla luce di quanto abbiamo detto forse è più corretto parlare di una serie di mutazioni genetiche parziali, associabili ad alcuni punti di svolta evidenziati da alcuni passaggi storici in cui il salto non è stato solo quantitativo, ma anche qualitativo. La mutazione più importante sicuramente è quella del berlinguerismo.

“La caduta dell’utopia” avvenuta con il crollo del muro di Berlino non giustifica l’abbandono dei principi fondamentali, l’abbandono dell’analisi generale, l’abbandono anche del materialismo storico e dialettico. Il movimento comunista italiano sopravvissuto ha ormai capito da tempo il valore distruttivo della “svolta occhettiana”, anche se forse non ha ancora riflettuto abbastanza sulla rapidità con cui è avvenuto il passaggio dal marxismo-leninismo al “liberal-socialismo”, che probabilmente è un’espressione fin troppo generosa per definire il PD. Quest’ultimo ormai è diventato un partito organico della grande borghesia, cercando di assolvere la funzione svolta negli Stati Uniti dai “democratici”: l’ala sinistra dell’imperialismo con delle sfumate venature “social” e cosmopolite. Evidentemente i problemi non risalivano solo a Occhetto, ma dovevano trovarsi anche nell’età precedente. In molti però non hanno ancora saputo o voluto fare questa analisi, ribadendo i fasti di un tempo che fu, quando quel partito era votato da un italiano su tre. Un grande consenso di massa ottenuto però a carissimo prezzo. Gli anni ’70 infatti si sono rivelati il periodo in cui alcuni capisaldi concettuali del marxismo sono saltati. Si svolge un duro dibattito nella commissione economica del PCI tra i cosiddetti ”conflittualisti” guidati dall’economista Graziani – quindi la posizione giusta – e i “compatibilisti” guidati da Modigliani, un altro economista invece di tendenza liberale. Siamo alla metà degli anni ’70 e purtroppo è quest’ultima corrente a vincere. Questo fatto è poco noto. Su un’altra svolta abbiamo detto: la politica estera indipendente che conduce alla rottura con Mosca nel momento più favorevole. Fino alla metà degli anni ’70 Mosca continua a sostenere attivamente il PCI, non solo a livello finanziario, ma accettando che i quadri del partito andassero a Mosca per essere addestrati a eventuali manovre di difesa in clandestinità nel caso ci fosse appunto un golpe. Insomma il KGB collaborava attivamente con il PCI, ma dopo che Berlinguer dice quella famosa frase – “preferisco stare sotto l’ombrello della NATO piuttosto che sotto il campo socialista” – i finanziamenti terminano.

Mentre in pochi si accorgono della messa in crisi di alcuni fondamentali del marxismo, questo numero crescente di compagni darà luogo al gruppo Interstampa, protestando contro la rimodulazione sempre più chiaramente antileninista della via italiana al socialismo. Non ha senso parlare di tradimento, perché non si può negare la buona fede a Enrico Berlinguer che è stato un grande comunista, un esempio etico un modello comportamentale, anche in considerazione della sua idea di austerità che andrebbe sviluppata per evitare la totale alienazione. Berlinguer aveva però completamente torto quando ad esempio, a seguito dei fatti della Polonia di inizio anni 80, parla dell’“esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione sovietica”, così come la famosa preferenza per “l’ombrello della NATO” nel giugno del ’76: una dichiarazione fatta sotto elezioni per cercare di raggranellare qualche voto in più… ma non si può raggranellare qualche voto in più su una questione di questo tipo. C’è da chiedersi perché nel ’53 Togliatti sostiene gli interventi sovietici a Berlino e nel ’56 a Budapest, mentre la direzione collegiale del PCI già con Longo nel ’68 denuncia all’intervento a Praga. Cos’è successo? Molti pensano appunto che avesse ragione Berlinguer, ma dimenticano che c’è un intero movimento comunista internazionale a condannare le tesi italiane all’epoca.

La verità è che il PCI già in quegli anni aveva maturato una mutazione ideologica nel senso di una eccessiva infiltrazione di “liberalismo” borghese.

 

I DUBBI SUL ”PARTITO NUOVO” TOGLIATTIANO

Questo processo ha origine da lontano. Torniamo al 1943: poche migliaia di quadri ben strutturati sul marxismo-leninismo e una serie di militanti consapevoli. Molti hanno già esperienza militare avendo combattuto in Spagna. Grazie all’insuperato modello organizzativo leninista riescono a costruire la esistenza armata al nazifascismo. Togliatti concorda la linea con Stalin. Pensare che Togliatti fosse un semplice facchino di Stalin non è ingenuo e infantile. Togliatti è un uomo intelligente che aveva le sue idee personali sul socialismo già da tempo, che aveva forgiato in un confronto-scontro anche con Gramsci. Non ripropone esattamente le idee di Gramsci, di cui si fa interprete principale, oltre che dell’esperienza diretta della realtà sovietica di epoca “staliniana”. Togliatti conosceva le idee di Gramsci e ha ritenuto di usarle, seppure in una propria visione “moderata” appunto per costruire i presupposti di questa “via italiana al socialismo”. Non si limita ad un accordo tattico con le altre forze antifasciste. Tutte le manovre che vengono realizzate fino al 1945 potrebbero essere viste come un tentativo tattico del gruppo dirigente per realizzare al momento opportuno una rivoluzione socialista. La rivoluzione però probabilmente non è mai stata voluta o non è mai stata ritenuta possibile. Höbel ha evidenziato bene come le idee di un socialismo “democratico” e più liberale si trovino già nel Togliatti giovanile e nel Togliatti che lavora nel Comintern degli anni ’30. È possibile che i conflitti politici e sociali interni all’URSS abbiano convinto Togliatti della necessità di ripensare una formulazione nuova del socialismo. Possono aver pesato considerazioni geopolitiche, ma l’impressione è che valgano soprattutto per l’epoca successiva all’agosto del ’45, quando gli Stati Uniti fanno esplodere la prima bomba atomica, avviando la guerra fredda. Da quel momento in poi fare la rivoluzione in Italia rischierebbe di portare ad una crisi di carattere internazionale dagli esiti imprevedibili. Nonostante nel 1945 e nel periodo successivo si assista a tentativi rivoluzionari in decine di paesi del mondo compresa la vicina Grecia, l’Italia rimane immobile. Nel periodo che va dall’aprile all’agosto del ’45 poteva anche essere logico tentare la strada di una libera elezione democratica. Sappiamo che è impossibile per i comunisti andare al potere democraticamente in un paese liberale, borghese, alleato dell’imperialismo statunitense e soprattutto a “sovranità limitata” ormai da tempo rinnovata mini potenza imperialista che si spartisce una parte della torta, cioè del controllo dei mercati internazionali. Questa è una lezione fondamentale che pone dei grandi limiti all’elaborazione togliattiana del marxismo. È fin troppo noto come sia Marx che Lenin, basandosi principalmente sull’esempio della Comune di Parigi (1871), ritenessero necessario che il proletariato operasse uno strappo netto con le istituzioni statali borghesi. La rivoluzione quindi sta nella necessità di operare una rottura netta, irreversibile, su alcune questioni fondamentali. E per operare una simile rivoluzione serve l’azione delle masse popolari. La necessità di avere un partito di quadri strutturati sul modello leninista del Che fare? rimane ancora oggi fondamentale, così come un recupero critico degli insegnamenti forniti da Gramsci e Togliatti.

 

PROBLEMI IRRISOLTI DEL PARADIGMA GRAMSCIANO-TOGLIATTIANO

Con il termine “gramsciano-togliattiano” si intende l’interpretazione togliattiana di Gramsci. Facciamo un esempio per capire che cosa può essere successo: ipotizziamo una rivoluzione vittoriosa, fatta con un partito di quadri partito, un’avanguardia di poche persone come è successo in Unione Sovietica. Una volta riuscita la rivoluzione, sarà necessario costruire un partito di massa, un partito cioè che sia capace di educare culturalmente e politicamente milioni di persone. L’idea gramsciana che questo processo potesse avvenire in una lunga guerra di posizione attraverso la costruzione di “casematte” per conquistare l’egemonia culturale è brillante, ma si è scontrata con un duplice problema storico: con l’allargamento del partito, dunque con la sua trasformazione da “operaio” a “popolare”, si sono introdotti nuovi strati sociali membri di un intellighenzia riconducibile al pensiero piccolo borghese e si sono infiltrati anche tutta una serie di opportunisti e di spie. Ma non è questo il dato essenziale. Il fatto è che anche il miglior rivoluzionario fonda il proprio agire sulla propria coscienza che si basa sul proprio vissuto quotidiano. Questo è un processo che avviene inconsciamente. Un comunista che ha vissuto le asprezze dell’esilio ai tempi del fascismo, del carcere, della guerra, della lotta armata è un comunista che difficilmente  ripudierà le proprie idee, anche se molti di quelli avevano letto poco o niente di Marx ed Engels. Togliatti ha fatto entrare nel partito 2 milioni di persone che appunto non solo non sapevano niente di Marx nella gran parte dei casi, ma che non sempre avevano vissuto queste esperienze. Il “partito nuovo” quindi ha certamente comportato un fattore decisivo per il rinnovo della cultura italiana, ha accresciuto il livello di civilizzazione e di educazione politica. Ma allo stesso tempo dobbiamo constatare che la crescita dell’intellettuale collettivo del partito non è stata sufficiente. Se il PCI è degenerato è perché le degenerazioni sono state più o meno consapevolmente accettate dai membri del Partito. Questo è un dato di fondo su cui riflettere: il centralismo democratico è degenerato facilmente e rapidamente nel centralismo burocratico in cui ci si limitava a sentire gli ordini dall’alto e ad accettarli passivamente. Altrimenti “la bolognina” non si spiega. Questo processo di per sé poteva ancora avere un fattore progressivo nel periodo in cui le organizzazioni territoriali erano in mano a quadri partigiani e compagni leninisti della prima ora. Nel momento in cui però la vecchia guardia viene sostituita da una facciata più “pulita” nell’ottica di conquistare un consenso democratico maggiore, si è consumata una svolta importante. Alludo alla messa da parte di Secchia e di tutta un’area del partito riconducibile alla Resistenza partigiana, per creare nuovi quadri (dicesi “processo di svecchiamento” o populisticamente “largo ai giovani”). Nell’impostazione gramsciana assumeva una funzione fondamentale il radicamento operaio attraverso cellule industriali. Si tratta del modello organizzativo più utile per conquistare un radicamento della classe lavoratrice, oltre ad avere un sindacato di riferimento o quantomeno avere una linea sindacale di classe. Ma all’inizio degli anni ’50 questo modello viene abbandonato dando avvio alla stagione dei circoli di partito. Ma fare una discussione politica fatta tra operai è cosa molto diversa rispetto a fare una discussione in un circolo in cui sono presenti intellettuali, studenti, avvocati comunisti di origine piccolo borghese, più bravi a parlare in pubblico avendo potuto garantirsi una migliore istruzione. Intendiamoci non c’è niente di male nel fatto che un borghese possa essere un membro del Partito. Sappiamo che la maggior parte dei maestri del socialismo erano di estrazione borghese, “traditori della loro classe di appartenenza”; indubbiamente però anche i comunisti, come ogni altro essere umano, subiscono gli influssi sociali, subiscono le mode, le tendenze,  le provocazioni del “sistema”. Il panem et circenses esiste da millenni e sarebbe ingenuo pensare che l’impero non agisca implacabilmente con ogni mezzo per portare avanti una lotta strenua per l’egemonia culturale, e quindi politica, colpendo anche i ranghi del Partito Comunista, influenzandone negativamente le frange più deboli. A risentirne di più sono i lavoratori intellettuali, i più colti, quelli che sono stati educati in un liceo in cui gli sono stati insegnati i valori del liberalismo. Quelli che tutto sommato hanno un buon lavoro e non faticano così tanto. Quelli che magari non hanno mai lavorato in vita loro e sono passati direttamente dai collettivi universitari alle strutture organizzative del Partito e del Sindacato. Non è un peccato fare di lavoro il rivoluzionario, ma è molto importante trovare un equilibrio tra la vita pubblica e la vita privata. L’autosufficienza economica è la premessa necessaria indispensabile per mantenere anche l’autonomia personale etica e politica.

Il rischio di mutazione nella mancanza di questa condizione è sicuramente molto più probabile. Qualcuno è riuscito a rimanere saldo fino alla fine, ma il caso di Massimo D’Alema e di molti altri “ex-comunisti” continua a gridare vendetta.

A favorire il passaggio ad un partito relativamente più “leggero” in epoca togliattiana è stata la rimozione dai vertici dirigenziali di Secchia e di tutti i cosiddetti “secchiani”: operazione propedeutica per stroncare l’interpretazione probabilmente più genuina del modello organizzativo rivoluzionario immaginato da Gramsci; un modello in cui gli intellettuali si sottomettono al Partito, si rendono organici alla classe proletaria, e non viceversa. Il modello gramsciano-togliattiano quindi ha fallito nel garantire il ricambio qualitativo. Un partito ingente quantitativamente, ma proprio per questo, eroso sul lungo termine qualitativamente. Tutte le mutazioni successive sono sintetizzabili nell’affermazione di Lukàcs per cui dirigenti italiani hanno continuamente invertito (confuso, scambiato) la tattica con la strategia, cedendo un pilastro dopo l’altro. La consacrazione della “via italiana al socialismo” ha potuto emergere pienamente solo dal 1956, dopo la morte di Stalin, consapevole che la linea togliattiana fosse nella fase del dopoguerra tutto sommato comoda, essendo l’URSS sulla difensiva nello scenario internazionale.

 

CHIAVI DI LETTURA ULTERIORI

Oggi la società italiana è profondamente cambiata per composizione sociale e per livello ideologico-culturale. Occorre capire come rimodulare tatticamente l’organizzazione leninista alla fase del totalitarismo liberale, in cui il livello della pervasività ideologica borghese è tale da aver quasi cancellato ogni forma di “utopismo” dalla testa dei lavoratori. Per fare una rivoluzione, piaccia o no, servirà una collettività animata in profondità da un atteggiamento che Mannheim alla fine degli anni 20 definiva “chiliastico”. Tale “ideal-tipo” politico è stato criticato con ottimi argomenti nelle ricerche storico-filosofiche di Losurdo, che ne ha evidenziato le conseguenze negative di lungo termine. Il tema è complesso proprio perché un atteggiamento chiliastico non è un atteggiamento necessariamente razionale, ma un atteggiamento che conduce anche in una certa misura quasi alla fede ad un intransigenza morale, quasi estremista. Nella società attuale però abbiamo problemi diversi, di cui la necessità di tornare a ragionare anche su questi temi, su Mannheim e su Bloch (altro importante pensatore marxista) che hanno parlato dell’importanza di capire come rilanciare in maniera efficace l’immagine dell’utopia comunista. Per farlo bisogna vincere la lotta culturale, che parte dalla necessità di imporre un bilancio più equilibrato della storia del movimento comunista contemporaneo. La storia del PCI si può interpretare come caratterizzata da una prima fase chiliastica quantomeno nella base militante e nei quadri intermedi (tra il ’44 e il ’48). I “capi”, che maneggiavano meglio le armi della dialettica materialistica, hanno fatto calcoli diversi, cercando di disciplinare l’ardore rivoluzionario degli operai dei capi partigiani. Il gruppo dirigente è l’avanguardia dell’avanguardia.

I leader hanno la funzione essenziale nel saper costruire (o aderire) le tesi migliori, le sanno imporre agli altri e ne sanno gestire la messa in atto.

Non è evidentemente compito agevole costruire dei buoni leader. A Lenin, capo della rivoluzione bolscevica, ci sono voluti quasi vent’anni di lotte interne per conquistare la leadership nel partito, forgiando il bolscevismo anche nella lotta ai “chiliasti”, oltre che agli “idealisti” e ai “liberali” menscevichi (tra cui Trockij) che si opponevano alle sue tesi sul partito disciplinato.

 

LA RINNOVATA IMPORTANZA DELLA FORMAZIONE POLITICA

Il problema della coscienza di classe è un tema particolarmente delicato. Come diceva Vittorio Rieser “la coscienza di classe è sempre reversibile, cioè puoi ‘regredire’ dai livelli precedentemente raggiunti”. Togliatti aveva coscienza di classe ai tempi dell’Ordine Nuovo, poi l’ha persa o comunque ha ragionato in una maniera per cui quando c’è stata l’occasione, non ha fatto la rivoluzione.

Il problema quindi non solo dell’acquisizione, ma anche del mantenimento della coscienza di classe è un tema decisivo nel marxismo. Se crediamo davvero nella possibilità futura di una rivoluzione, questo tema va risolto. Analizzando la storia del PCI il tema assume una centralità assoluta. Chiunque intenda oggi partecipare alla ricostruzione del movimento comunista in Italia e in Occidente deve risolvere questo problema. Occorre quindi strutturare un continuo programma di formazione,  ricostruendo una visione filosofica e soprattutto etica per l’uomo che può essere libero solo quando riesce a dominare anche gli impulsi provenienti dalla mera materialità.

[1] La gran parte delle citazioni sono tratte da A. Pascale, Storia del Comunismo,Intellettualecollettivo.it, 2019 [1°ed. In difesa del socialismo reale e del marxismo-leninismo, 2017] dove è possibile trovare le fonti dettagliate.

2 Comments

  1. Fulvio Baldini ha detto:

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  2. Antonio ha detto:

    Buongiorno … molti temi. Vorrei solo sottolineare un passaggio: la sottovalutazione del PCI dell’uso strumentale che la futura DC fece dei Comitati di Liberazione, ove il PCI (e gli altri gruppi politici) partecipavano in modo leale e quasi ingenuo. Poi gli anni scandalosi della costituente e dei primi anni della Repubblica ove il PCI, Socialisti, ecc … lo stesso Parri … non hanno capito (dimostrano di non averlo capito … lo capirono dopo … o almeno alcuni ebbero il coraggio di ammetterlo) in che cul de sac li stavano mettendo. In quegli anni il PCI aveva la possibilità e la forza (senza tanto arrivare a minacciare la rivoluzione non avendo la forza militare per farlo) ma la forza per fare altro … lo aveva. Leggendo i fatti storici sembra di aver a che fare con persone appunto ingenue … molto ingenue (vedi la questione agraria) … su molti fatti e giochetti che i futuri “padroni” … di fatto erano sempre gli stessi … misero in atto in quegli anni per mettere i paletti giusti per garantirsi un futuro politco agevolato. Per finire direi che parlare di classi riconducendola ancora a due, di cui una è quella rappresentata dagli “operai” mi sembra veramente riduttivo. Le parole hanno un senso anche relativo al contesto storico in cui si opera.

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