Scarica come PDF: SULLA “PUNIZIONE COLLETTIVA” SOFFERTA DAI PALESTINESI
Sul fronte palestinese si levano numerose le voci di condanna per i morti patiti dalla popolazione civile. La “punizione collettiva” inflitta dal governo israeliano agli abitanti della Striscia di Gaza sarebbe una violazione dei diritti umani.“Un conto sono gli attacchi diretti contro Hamas, un conto la rappresaglia sui civili inermi…”, si dice.
Come analizzato in un altro contributo, solamente chi crede nelle guerre “umanitarie” può stupirsi per quanto sta avvenendo nella Striscia di Gaza.
In questo articolo proverò a spiegare perché tale modo di fare è, dal punto di vista della classe dominante israeliana, paradossalmente legittimo, legale e razionale. Occorre ricordare in tal senso come perfino i nazisti abbiano argomentato a Norimberga, di aver seguito la legalità e una ben precisa “razionalità” tecnico-economica, il che serve a ricordarci la necessità di un punto terzo di osservazione, capace di considerare l’abisso che può separare la legalità borghese e imperialista dalla giustizia sociale internazionalista.
La concezione che legittima gli attacchi contro formazioni militari e condanna quelli contro i civili presuppone una separazione netta tra l’organizzazione politica che comanda nella striscia di Gaza dal 2007 e i disgraziati che da questa organizzazione sono governati. Un presupposto irrealistico, che è stato più volte messo alla berlina sia dal governo sionista sia dagli analisti più attenti, i quali riconoscono il forte radicamento e consenso di cui godono gli estremisti islamici responsabili della controffensiva del 7 ottobre. Consenso, sia detto di sfuggita, che è anche il frutto dei molteplici errori perpetrati da altre componenti della resistenza palestinese (tra cui OLP e Al-Fatah). Ma secondo i “dirittoumanisti” un conto è ripagare i miliziani con la loro stessa moneta, un conto è utilizzare quella stessa moneta per colpirne fiancheggiatori, sostenitori o semplici spettatori.In fondo, alla base di tutte le moderne società in cui domina la borghesia, la responsabilità penale è sempre individuale (purché la persona sia capace di intendere e volere) e tale deve rimanere. I membri della famiglia del criminale non possono sedere sul banco degli imputati se non partecipano in alcun modo al delitto. Ancor meno i meccanismi sociali che concorrono a determinare nel reo la necessità dell’azione delittuosa. Educazione, frequentazioni, ambiente di vita e condizioni di lavoro, al massimo possono essere chiamati in causa quali fattori attenuanti o aggravanti. Per questo, a differenza di quanto avveniva in un passato non troppo lontano, la punizione non può essere collettiva, né l’imputato può chiedere che venga processato un altro al proprio posto.
Tale concezione dei rapporti sociali, se può essere di qualche utilità nelle dispute di carattere personale, rischia di diventare inservibile e addirittura dannosa nella lotta di classe. La maggior parte, se non tutte, le campagne di boicottaggio dei prodotti provenienti da Israele, ad esempio, non stanno a guardare il posizionamento dei campi, delle fabbriche o dei magazzini di ogni singolo imprenditore. Che occupino legalmente o meno la terra è irrilevante, né importa se vanno a votare o che posizione hanno riguardo l’occupazione. Lo stesso dicasi per le campagne di boicottaggio da condurre qui a casa nostra. La vicenda della Lucca Comics & Games è esemplificativa: il suo boicottaggio rischia di rappresentare soltanto un lavaggio di coscienza se non si capisce che il patrocinio di Israele è soltanto la punta di un iceberg che galleggia sulla quotidiana indifferenza e silenzio. Pertanto chiunque, indipendentemente dai legami con lo Stato di Israele, non si schieri effettivamente con la Palestina (che poi ciò sia visibile alla pubblica opinione è un’altra questione) diventa oggettivamente complice del governo sionista.
Riconoscere la legittimità della “punizione collettiva” significa, come già scritto in un altro contributo, riconoscere le responsabilità dei civili israeliani per quanto sta accadendo. Civili che hanno convintamente e massicciamente manifestato nei mesi scorsi contro la riforma del sistema giudiziario ma non (salvo sparute meritevoli minoranze) contro i “crimini di pace” quotidianamente perpetrati dal 1948 ai danni dei palestinesi mediante decine di leggi razziali (oltre 65). Che da ciò consegua una legittimazione degli attacchi contro gli occupanti tutti, inclusi quei proletari che continuano a ballare mentre i propri simili vengono quotidianamente massacrati, mi pare inevitabile. Anche perché, come ci ricorda Thomas Sankara, «lo schiavo che non organizza la propria ribellione non merita compassione per la sua sorte».
Che poi questa tattica, ancorché legittima, sia effettivamente utile ai subalterni è una questione che non può essere decisa da chi si limita a stare tra una sedia e la tastiera di un computer. Sicuramente lo è per chi governa.
Se la punizione collettiva è legittima, non significa che sia legale.Il diritto internazionale umanitario redatto nel secondo dopoguerra è composto da 31 accordi tra trattati, convenzioni, protocolli e dichiarazioni. Di questi accordi, tuttavia, Israele ne ha firmati solamente 15. Questo significa che non tutto ciò che da noi si considera crimine contro l’umanità lì è tale. Degli 11 accordi relativi alla protezione delle vittime dei conflitti armati, ad esempio, Israele aderisce solamente a 7. Dei 15 relativi alla proibizione di armi, aderisce a 6. Dei 3 relativi alla protezione della proprietà culturale, aderisce a 2. Nessuna adesione alla convenzione sulla proibizione dell’uso militare delle tecniche di modifica dell’ambiente. Né Israele aderisce al trattato che istituisce la Corte penale internazionale. Complessivamente, su una platea di 197 Stati, solamente 50 hanno fatto “peggio” (per i dettagli si veda qui).
Più nello specifico, l’azione che si viene a configurare sotto la forma giuridica della rappresaglia, nel diritto internazionale è definita come un’azione di autotutela effettuata da uno Stato contro un altro Stato, condizione che manca in quanto lo stato di Palestina non è riconosciuto da Israele. Inoltre, come sottolineato anche dalla risoluzione 2675 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sui principi fondamentali per la protezione delle popolazioni civili nei conflitti armati adottata nel 1970, «le popolazioni civili, o i singoli membri delle stesse, non dovrebbero essere oggetto di ritorsioni».
Infine, il caso della “punizione collettiva” è esemplificativo: tale pratica è proibita dalla terza convenzione di Ginevra (art. 87), di cui Israele è firmatario. Ma tale convenzione si applica solamente ai militari, quindi non alla fattispecie di Gaza. Tale divieto è contenuto anche nella quarta convenzione di Ginevra (art. 33), di cui pure Israele è firmatario. Ma tale convenzione si applica solamente alle “persone protette”, vale a dire a chi cade nelle mani del nemico. Quindi, ancora una volta, non si applica ai gazawi. Fortunatamente, il divieto della punizione collettiva è riconosciuto anche nei protocolli aggiuntivi I e II come una garanzia fondamentale per tutti i civili e le persone fuori combattimento. Peccato che Israele non abbia aderito a tali protocolli.
Questo senza contare che tali accordi si applicano solamente ai governi vinti, non a quelli vincitori. Davanti alla sbarra sono stati portati Slobodan Milosevic e Saddam Hussein e non Bill Clinton o George W. Bush, malgrado i crimini commessi da questi ultimi siano decisamente più gravi e numerosi.
Se a livello di diritto internazionale Israele non riconosce la “punizione collettiva” sofferta dai palestinesi come crimine, a livello di diritto interno tale pratica è addirittura promossa, tramite il protocollo Annibale e la dottrina Dahiya. Il primo, ufficialmente sostituito nel 2017 da una direttiva simile di cui non si sa praticamente nulla se non che esiste, consiste nella possibilità di uccidere i propri soldati che sono stati fatti prigionieri dal nemico. Una possibilità che si è realizzata più volte nel corso del nuovo millennio, come riporta addirittura Wikipedia nella pagina dedicata.
Ma se le vittime civili non sono ufficialmente previste dal protocollo Annibale, ciò non si può dire per quanto riguarda la dottrina Dahiya, tuttora ufficialmente in vigore. Essa rappresenta una strategia militare di guerra asimmetrica che consiste nell’applicazione della «distruzione diffusa come mezzo di deterrenza» e comporta «l’applicazione di una forza sproporzionata e la promozione di ingenti danni e distruzione alle proprietà e alle infrastrutture civili, nonché di sofferenze alle popolazioni civili». Parole delle Nazioni Unite, che denunciano come tale dottrina sia stata effettivamente applicata nella striscia di Gaza già nella guerra del 2008-2009.
Oggi, da quanto emerge dalla stampa israeliana mainstream e di controinformazione (il giornalista Franco Fracassi ne ha stilato un interessante compendio sul proprio canale Telegram), sembrerebbe che entrambe queste strategie vengano attivamente utilizzate dalle forze armate israeliane fin dal 7 ottobre. Ciò significa che non soltanto i militari, ma anche i civili tutti, palestinesi e israeliani, sono legittimamente e legalmente sacrificati.
Dopo aver visto perché la punizione collettiva sofferta dai palestinesi di Gaza è “legittima” e “legale” dal punto di vista israeliano, rimane da vedere se essa è anche razionale.I motivi generali per cui i governi occidentali, in particolare quello statunitense, vogliono allargare i fronti della terza guerra mondiale, sono già stati analizzati in un altro articolo. Si tratta ora di capire fino a che punto le classi dominanti israeliane condividano tale interesse e trovino utile perpetrare una mattanza a danno dei palestinesi che assomiglia sempre più a un genocidio.
Il primo motivo che conferma la razionalità della punizione collettiva ha a che fare con la demografia. La natalità dei palestinesi è più alta di quella degli israeliani (3,6 nati per donna versus 2,9). Questo fatto, se è positivo da un punto di vista economico e di classe (aumenta la forza-lavoro potenzialmente sfruttabile), è negativo da un punto di vista militare e nazionale, sia nel caso della nascita di uno Stato palestinese, sia nel caso in cui ciò non avvenga.
Per attuare la formula dei “due popoli due Stati” rispettando i confini del 1967 mancano i rapporti di forza. Al momento oltre il 60% di tali territori sono sotto l’esclusiva amministrazione israeliana (area C della Cisgiordania) che ne favorisce la colonizzazione e la progressiva assimilazione. Pertanto, i territori di un ipotetico Stato palestinese non sarebbero sufficienti né tra loro confinanti. Inoltre, come stiamo vedendo a Gaza, un tale Stato non sarebbe neanche indipendente dal punto di vista dell’erogazione dei servizi essenziali (fornitura di acqua, carburante, energia elettrica, telefonia mobile, internet, ecc). È chiaro che un paese territorialmente frammentato, economicamente dipendente, con una popolazione in forte crescita anche per il ritorno di milioni di profughi sparsi nei paesi limitrofi, non pare il miglior candidato a convivere pacificamente con chi lo mantiene in tali condizioni.
Né le cose andrebbero meglio dal punto di vista dei suprematisti bianchi con la stella di David nel caso in cui si adottasse la formula di “uno Stato per due popoli”. Una soluzione non meno irrealizzabile per quanto riguarda la parità dei diritti tra ebrei e non ebrei, che neanche la sinistra riformista che ora siede nel governo di unità nazionale di Netanyahu mette in discussione. A maggior ragione se sono i palestinesi a figliare di più. Una questione che la classe dominante israeliana conosce bene e per la quale ha elaborato una soluzione.
A rivelarcela è stato nel 2004 Arnon Soffer, professore di geografia all’Università di Haifa, specializzato in questioni demografiche e consulente dell’ex primo ministro Ariel Sharon. Alla vigilia del ritiro da Gaza ebbe a dichiarare: «Quando 2,5 milioni di persone vivranno in una Gaza chiusa, sarà una catastrofe umana. Quelle persone diventeranno animali ancora più grandi di quanto lo siano oggi, con l’aiuto di un folle islam fondamentalista. La pressione al confine sarà terribile. Sarà una guerra terribile. Quindi, se vogliamo rimanere in vita, dovremo uccidere, uccidere e uccidere. Tutto il giorno, tutti i giorni».
La seconda ragione per la quale al governo israeliano appare razionale la punizione collettiva inflitta ai palestinesi di Gaza ha a che fare con la “liberazione” di risorse essenziali. In primo luogo l’appropriazione di nuove terre per ulteriori insediamenti di coloni. Il contrattacco palestinese del 7 ottobre rappresenta un’occasione più unica che rara per scacciare centinaia di migliaia, se non addirittura milioni di persone dalle proprie case. La loro sistemazione in Egitto, inoltre, oltre a rifornire di manodopera a basso costo il locale mercato del lavoro, potrebbe essere pagata dai contribuenti israeliani nell’ambito di un più ampio sostegno al governo di al-Sisi, alle prese con una crisi economica che rischia di mandare il paese in default. Una vera e propria iattura per Israele e gli Stati Uniti, dal momento che il governo del Cairo è fortemente esposto nei confronti della Cina, che in caso di inadempienza potrebbe legittimamente rivendicare il controllo delle risorse strategiche del paese (per i dettagli si veda il documento redatto dal Misgav Institute for National Security & Zionist Strategy).
L’altra risorsa essenziale cui Israele punta è rappresentata dai giacimenti di gas naturale rilevati nel 2000 al largo della striscia di Gaza e tuttora vergini. Una scoperta fatta dal British Gas Group a seguito di un accordo venticinquennale siglato l’anno prima con l’Autorità Nazionale Palestinese.
La guerra di Gaza del 2008-2009 è servita a bloccare lo sfruttamento di tale giacimento e a portarlo di fatto sotto controllo israeliano. Quella attuale per suggellare definitivamente tale stato di cose mediante l’appropriazione di una parte della striscia e, conseguentemente, delle riserve di gas poste al largo delle sue coste. In modo che allo scadere della convenzione l’anno prossimo se ne possa fare un’altra estromettendo definitivamente i palestinesi.
Se lo sterminio dei gazawi è razionale, un allargamento del conflitto non è privo di controindicazioni proprio nell’ambito del controllo del gas e delle sue rotte. Già oggi Israele ne è esportatore netto (9 miliardi di metri cubi l’anno) e nei prossimi anni punta a raddoppiare la propria capacità produttiva. L’obiettivo è quello di collegarsi al TAP (Trans-Adriatic Pipeline) mediante la costruzione del gasdotto EastMed-Poseidon passante per Cipro e Grecia. Un progetto fondamentale anche per le principali economie del vecchio continente e che rischia forti ritardi ove la guerra dovesse estendersi. Stesso rischio anche per l’altro gasdotto israeliano, quello verso la Turchia, da cui Israele importa il petrolio proveniente dal Caucaso. Allargamento del conflitto che potrebbe portare ad un aumento dei prezzi dell’energia, il cui principale beneficiario sarebbero, ancora una volta, gli Stati Uniti d’America.
Ma il progetto più grande che rischia di vedersi impantanato è quello relativo al corridoio economico India – Medio Oriente – Europa, un’alternativa al canale di Suez e alla nuova via della seta cinese (la Belt and Road Initiative): una rete ferroviaria e marittima in grado di collegare l’India all’UE passando per gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, la Giordania e Israele. Un progetto strategico anche per gli USA in chiave anti-cinese e che rompe l’unità dei BRICS. Tutti progetti importanti, la cui rilevanza sarà misurata anche nella capacità che avranno di portare a più miti consigli la classe che sostiene Benjamin Netanyahu. Nessun “animale”, d’altronde, per quanto quanto “sociale” è completamente razionale.
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