Tangenti alla Nigeria, ENI e Shell sotto accusa

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Tangenti alla Nigeria, ENI e Shell sotto accusa

In questi giorni l’ENI esulta trionfante per l’apertura in tempi record del maxi-giacimento di Zohr, al largo della costa egiziana. Una gallina dalle uova d’oro, con un potenziale stimato in 30 miliardi di metri cubi annui di gas, più o meno quello che l’Italia ha importato lo scorso anno dalla Russia. ENI detiene una quota del 60% nella concessione, seguita dalla russa Rosneft (30%) e da BP (10%). Ma per il colosso italiano non c’è solo da esultare.

È arrivato ieri il rinvio a giudizio per Eni, Shell e altre 13 persone fisiche, chiesto a febbraio dalla procura di Milano, per corruzione internazionale. Fra questi l’attuale amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e il suo predecessore Paolo Scaroni. Nel mirino alcune presunte tangenti che sarebbero state pagate al governo nigeriano nel 2011. Un miliardo e 92 milioni di dollari che, secondo l’accusa, sarebbero stati versati da intermediari con l’obiettivo di ottenere dal governo una concessione offshore per esplorazioni petrolifere.

L’influenza delle multinazionali del petrolio e del gas in Nigeria è purtroppo già tristemente nota. È passata alla storia l’esecuzione dell’attivista Ken Saro-Wiwa, impiccato nel 1995 assieme ad altri militanti, dopo l’arresto e un processo farsa, giunti in seguito a manifestazioni contro le devastazione ambientali da parte della Shell, a cui parteciparono centinaia di migliaia di persone. Negli anni successivi fu intentata una causa per dimostrare che il mandante dell’arresto e dell’esecuzione fu proprio la Shell.

Un argomento, quello dell’attività delle multinazionali in Nigeria, che dovrebbe particolarmente interessare il nostro paese, visto che l’Eni è attiva dagli anni ’60 nel paese africano. La Nigeria è uno dei paesi più ricchi dell’Africa (attualmente il primo per PIL nominale), ma al contempo è il primo paese di provenienza degli immigrati che sbarcano nei porti italiani. Il sintomo evidente di una ricchezza svenduta alle grandi compagnie petrolifere, mentre a goderne sono solo le corrotte élite locali. Si parla spesso di “migranti economici” per distinguerli da chi scappa da zone di guerra, ma si finisce per dimenticare che molti scappano da una miseria che è il prodotto dello sfruttamento da parte dei grandi monopoli, che l’imperialismo non è solo militare o politico, ma innanzitutto un fatto economico.

Una riflessione, questa, che molto di rado si trova in un dibattito politico sul tema immigrazione polarizzato fra chi fa campagna elettorale cavalcando sentimenti di xenofobia e razzismo, e chi parla genericamente di accoglienza senza una visione complessiva di ciò che avviene. Ma se si volesse discutere seriamente non solo della gestione dei flussi migratori, ma anche della soluzione delle situazioni di crisi e instabilità che ne sono all’origine, bisognerebbe chiedersi: cosa può fare il nostro paese per impedire che milioni di uomini disperati siano costretti a lasciare la loro terra, scappando da guerra e povertà, per cercare un futuro altrove?

La risposta sarebbe, innanzitutto, cessare non solo il coinvolgimento dell’Italia in ogni attività militare all’estero, ma anche quello delle imprese italiane nello sfruttamento delle risorse di altri paesi che ne impedisce lo sviluppo e contribuisce a perpetrare condizioni di povertà con la logica dello scambio ineguale. Ma di tutto questo non si parla, perché quando lo si fa improvvisamente gli interessi delle grandi imprese diventano tutto d’un tratto gli interessi “nazionali”.

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