Si torna a discutere dello stato in cui versano le ferrovie italiane, come spesso avviene, a ridosso di una tragedia, quella di Pioltello dove il deragliamento di un treno su cui viaggiavano centinaia di pendolari ha portato alla morte di tre donne, e a un bilancio di circa 100 feriti di cui 5 gravi. Un avvenimento che giunge a un anno e mezzo di distanza dal disastro del luglio 2016, dove in Puglia lo scontro frontale tra due treni regionali portò alla morte di 23 passeggeri.
Sembra ormai confermato che la causa del deragliamento è stata il cedimento di un pezzo di rotaia. I responsabili legali e della sicurezza di Rete Ferroviaria Italiana (RFI), la Spa partecipata responsabile delle infrastrutture, saranno iscritti come atto dovuto nel registro degli indagati. Proprio su quella tratta, stando a quanto riporta la stampa, sarebbero stati effettuate a breve delle attività di manutenzione.
Quello che è certo è che, al di là della tragedia, tutto questo avviene in un contesto che vede le tratte regionali sempre più penalizzate, in termini di investimenti, rispetto all’alta velocità. I dati provengono da uno studio di Legambiente: dal 2010 ad oggi i treni regionali sono stati ridotti del 6,5%, gli intercity del 15,5% mentre i passeggeri che li scelgono diminuiscono del 40% (quasi dimezzati). L’età media nazionale dei convogli è di 16 anni, che sale a 19 anni per i treni del Sud. A questo fa da contraltare una crescita del 6,6% dell’alta velocità, e una crescita enorme dei collegamenti fra Roma e Milano, aumentati di ben il 435% dal 2009.
A fronte di tutto questo si registrano aumenti tariffari del 17%: si paga di più per servizi inferiori. Una conseguenza del processo di sempre maggiore privatizzazione, dell’introduzione di logiche privatistiche e di profitto in quello che dovrebbe essere un servizio pubblico e un diritto per i cittadini, e in particolare per i lavoratori pendolari.
Sono scelte dovute a logiche aziendali e di profitto, che evidentemente si ripercuotono sullo stato di manutenzione delle vetture e delle linee. I disastri ferroviari più recenti, in Italia, come il già citato disastro del luglio 2016 fra Andria e Corato (23 morti) o quello del 2010 a Laces, in Alto Adige (9 morti), vedono coinvolti treni regionali. Anche al di là dei disastri, le condizioni in cui si viaggia sui treni regionali, utilizzati tra l’altro dai lavoratori pendolari, sono universalmente note. I lavoratori pendolari viaggiano ogni giorno, per centinaia di chilometri, su treni fatiscenti, convogli vecchi, spesso veri e propri carri bestiame fra malfunzionamenti di ogni tipo. Centinaia le corse soppresse e i guasti che causano ritardi a catena su tutta la linea.
Al di là della tragedia, del contingente, delle responsabilità individuali, esiste nel complesso una responsabilità politica che non può essere ignorata. Non tanto di questo o quel partito, come afferma il facile sciacallaggio da campagna elettorale, ma di un indirizzo politico generale, comune a tutti i governi degli ultimi anni, che ha favorito processi di privatizzazione a fronte di tagli alla spesa pubblica che inevitabilmente si ripercuotono sui servizi.
In politica molto spesso si parla di sicurezza, una parola acchiappa-voti che da tempo fa parte degli annunci elettorali. Lo si fa sempre con riferimento al crimine, ma mai con riferimento al diritto alla salute dei cittadini. Ma non si dovrebbe forse parlare del diritto alla sicurezza di chi viaggia per andare a lavoro, o meglio del diritto a non trovarsi in pericolo? Migliaia di lavoratori pendolari ogni giorno sperano che i treni permettano di tornare a casa in tempo per cenare con la propria famiglia. Questa speranza non può tramutarsi nella speranza di tornare a casa.
In Italia servirebbe un intervento di riqualificazione e potenziamento delle tratte regionali e interregionali, ristabilire il diritto alla mobilità garantendolo a tutta la popolazione e ai lavoratori, non solo a chi può permettersi viaggi ad alta velocità in Business Class. Fino ad ora si è scelta un’altra strada, piegando un diritto delle classi popolari agli interessi e al profitto di qualche manager. E a pagare sono i lavoratori. A volte, purtroppo, anche con la vita.