di Alessandro Mustillo
Lo schiaffo all’establishment americano è compiuto. Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti, dopo aver battuto Hillary Clinton con un ampio margine di grandi elettori. La vittoria repubblicana travolge i democratici anche al Congresso e al Senato, anche se in termini percentuali di voto popolare, che come noto non è un fattore dirimente nel sistema elettorale ultra-maggioritario americano, il divario si riduce a un milione di voti, abbondantemente meno dell’1%. Un’America spaccata senza dubbio, costretta tra l’alternativa di un candidato marcatamente di destra che si presenta in un’ottica anti-establishment e una candidata democratica, emblema di tutto ciò che c’è di negativo della classe politica americana. Il risultato americano conferma un trend ormai consolidato: allo scollamento del fronte “progressista” dai settori popolari, corrisponde una presa di quei settori da parte di una destra reazionaria, che si accredita come anti-establishment. La sinistra imposta la sua battaglia su temi civili, sulla tenuta rispetto al rischio dell’avversario, e quindi accoglie tra le sue braccia il sostegno dei settori dominanti del capitale. La destra vince sulle contraddizioni sociali, pur rappresentando solo un’altra visione dei settori capitalistici, porta dietro di sé il consenso del ceto medio proletarizzato dalla crisi e dei settori dei lavoratori, abbandonati a sé stessi e privi di una reale coscienza politica.
L’elezione di Obama era stata presentata come una grande speranza di cambiamento per l’America e il mondo. Anche in Italia tutta la sinistra si era ricompattata, dal PD a Rifondazione, valorizzando la vittoria dei diritti civili nel paese della divisione tra neri e bianchi. La sinistra radicale in particolare aveva insistito su questo aspetto, come spesso accade, tentando di importare modelli e miti dall’estero. I comunisti, quelli coerenti – sembra sempre brutto fare questo discorso e ci si espone alle critiche su contrasti, divisioni, litigi, ma purtroppo alla prova dei fatti le cose stanno così – non si erano per nulla entusiasmati, ricordando la celebre espressione di Fidel Castro per cui democratici e repubblicani sono solo due facce della stessa medaglia. La prova dei fatti ha dato ragione a noi, mentre ci meritavamo i consueti appellativi di “settari” “stalinisti” perché non ci allineavamo alla vulgata generale. Obama è stato l’utile strumento delle classi dominanti americane in un periodo di crisi. Ha portato avanti la politica imperialista in medio oriente e africa, tra primavere arabe e interventi diretti. Ha acuito i contrasti internazionali con la Russia. Ha fatto qualche timida apertura a progetti sociali interni, tutti a ribasso su un programma già di compromesso e pienamente compatibile. Nella sua presidenza il gap sociale tra i grandi ricchi della finanza e le classi popolari è aumentato. Dulcis in fundo la divisione tra neri e bianchi, ossia la questione dello sfruttamento e delle condizioni del proletariato e del sottoproletariato dei ghetti americani è rimasta inalterata, con nuovi casi di uccisioni, e contrasti che si acuiscono nella società americana, nonostante il presidente nero. Anche il disgelo con Cuba esaltato dai settori progressisti altro non è stato che un tentativo di ottenere con altri mezzi la capitolazione del socialismo nell’isola, con il blocco economico ancora pienamente operante.
Michael Moore aveva ammonito sulla vittoria di Trump. Onore al merito per aver colto ciò che stava realmente accadendo nell’America profonda. Ma le sue parole sono interessanti anche per capire quale sia lo spirito dello scontro tra settori in atto. Moore afferma: «La sinistra ha vinto la guerra culturale. I gay e le lesbiche possono sposarsi. La maggioranza degli americani ora adotta posizioni liberali in quasi tutti i quesiti elettorali. Paga uguale per le donne. Legalizzazione dell’aborto. Leggi più severe in materia ambientale. Più controllo sulle armi. Legalizzazione della marijuana.» Tolta la parità salariale per le donne, non esiste un provvedimento di natura sociale che venga seriamente preso in considerazione. Mentre la sinistra vince su una presunta battaglia culturale, registra l’accettazione culturale nella società di un avanzamento sul tema dei diritti civili, dimentica completamente il tema dei diritti sociali, che lascia a ricette della destra.
Trump ha vinto nei distretti industriali del paese dove maggiormente si sente il peso della crisi. Ha promesso di riaprire le fabbriche e riportare gli americani disoccupati a lavorare. Ha vinto tra i lavoratori, tra le classi medie proletarizzate e sotto-proletarizzate, tra i contadini. Lo stesso accade da tempo nei distretti industriali francesi dove vola il FN, è accaduto in Gran Bretagna con il voto sulla Brexit, pur con tutte le differenze si evidenzia nel voto al M5S nelle periferie popolari delle grandi città italiane e così via. Questo non fa di Trump un candidato a favore dei lavoratori, non trasforma una forza reazionaria in una forza autenticamente e realmente progressista. Trump ha promesso meno ingerenze negli affari degli altri paesi, questo non ne fa un candidato antimperialista. Ma è significativo che su tutti questi temi il fronte “progressista” sia più arretrato di una forza reazionaria, più allineato esplicitamente agli interessi delle classi dominanti. Si comprende allora che ogni sostegno orientato sulla logica del “meno peggio” verso i democratici – come anche in questa occasione fatto da PC Usa – non solo sia sbagliato in termini reali, ma è una lingua che le classi popolari non possono parlare. Ogni teoria si infrange davanti alla realtà, ogni previsione viene smentita perché gli interessi dei settori dominanti del capitale non riescono più ad esercitare direttamente quell’egemonia attraverso partiti e figure politiche tradizionali. Il ceto medio piccolo borghese che è il fattore dirimente in questo processo riesce ad impostare la sua lotta politica solo nei confronti della casta, non può dare ampio respiro ad un reale processo di emancipazione popolare. Limita la sua visione al capitalismo tradizionale.
Cosa sarà Trump? Difficile dirlo con precisione. Forse il presidente che contribuirà a minare ulteriormente l’egemonia statunitense, in un processo che appare irreversibile nelle tendenze economica ormai consolidate, che vedrà un ulteriore stimolo anche in termini di immagine. Un Presidente che si riallineerà immediatamente ai settori dominanti? Probabile che entrambe queste risposte siano vere. Di certo è improbabile che si realizzino quegli scenari apocalittici prospettati da chi in questi mesi per giustificare il voto verso la Clinton vedeva in Trump una sorta di Hitler in provetta. Nè d’altra parte si realizzeranno facili automatismi sostenuti da qualche interprete della geopolitica da risiko. E’ possibile che, come sempre accaduto, i margini reali dell’azione di un presidente americano siano assai limitati. Che gli interessi economici e politici veri, i settori del capitale imperialista che negli USA hanno il loro primo avamposto mondiale, siano in grado di determinare la politica della più grande potenza economica e militare del pianeta, quasi indipendentemente dall’inquilino della Casa Bianca. Anche quelle classi popolari che a Trump hanno dato fiducia non guadagneranno nulla da un cambio di presidente, in un sistema economico-sociale intatto, in cui settori della borghesia riusciranno invece ad incrementare i propri profitti anche grazie alle proposte su tasse, privatizzazioni, e politica economica che il candidato repubblicano ha avanzato. Ricordiamo poi che Trump è un vecchio finanziatore della Clinton, è pur sempre un capitalista che per quanto giochi a presentarsi come anti-establishment ne fa a pieno titolo parte. Il gioco sul mito dell’imprenditore che si è fatto da solo, del sogno americano, dell’anti-retorica che lo rende alla portata dell’americano medio, non cancella il discrimine di classe di una politica che ricorda tanto quella della Roma antica dove il dibattito tra populares e optimates si svolgeva pur sempre tra famiglie dell’aristocrazia cittadina. Un segnale ulteriore dell’arretratezza della reazione delle classi popolari americane la cui scelta è pur sempre legata a esponenti di fazioni borghesi, tra due nemici di classe.
L’interesse si sposta poi sull’Europa. All’inizio degli anni ’90 la vittoria di Clinton aprì il ciclo delle vittorie “progressiste” in vari paesi europei. Blair nel Regno Unito, Prodi in Italia. La vittoria di Trump è un segnale e apre ad una ondata di destra sul continente europeo. Un vento che già soffiava, ma che adesso può diventare un tifone. La destra francese, inglese, persino in Germania e Italia sarà certamente galvanizzata da questo risultato. Il voto contro la casta, contro l’establishment è indubbiamente la tendenza di questa fase, ma è una prigione per le classi popolari. E’ un voto che divide gli oppressi, che ha nell’immigrazione un punto cruciale e che finisce per portare la rabbia popolare sul binario della lotta tra poveri, distogliendolo dal terreno del conflitto di classe. Non saranno coalizioni con le forze socialdemocratiche a invertire la rotta, come già visto varie volte, perché il meno peggio è il modo migliore per consegnare alla destra populista vasti settori delle masse popolari. Non sarà appoggiare nuove forme di socialdemocrazia di sinistra, che dove già al governo, come in Grecia, mostrano tutti i loro limiti storici. Il problema della soggettività autonoma della classe operaia capace di legare attorno a sé i settori più combattivi delle masse subalterne è la questione del nostro tempo, non rimandabile, unica che possa costruire un’azione delle classi popolari autonoma da tendenze inconcludenti e avventure reazionarie.
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[…] Fonte: La Riscossa […]