LE POLITICHE DI UN’UNIONE EUROPEA SENZA AUTONOMIA E SENZA IDENTITA’
di Fosco Giannini, Presidente Associazione Nazionale “Cumpanis”
Il progetto scientifico di mitizzazione dell’Unione europea, in Italia e negli altri Paesi Ue, si è avvalso sia di uno spazio temporale lunghissimo che di mezzi propagandistici e volti all’organizzazione del consenso di massa dall’inedita e spregiudicata potenza. Dalle liturgie parlamentari ed istituzionali ai testi scolastici, dalla letteratura al cinema, dalla pubblicità all’arte, dalla politica ai media, ogni cassa di risonanza con capacità di propagazione di massa è stata accesa e resa funzionale alla costruzione della mitologia dell’Europa unita, alla trasformazione di un progetto unitario tanto artificioso e avulso dalla dialettica storica quanto feroce e antioperaio nella concreta proposta sociale, un progetto uscito come un coniglio dal cilindro del grande capitale e venduto sul mercato politico come spinta storica destinale e irreversibile, una pulsione (positivista) inarginabile.
Per gli interessi del movimento operaio complessivo europeo vi è sempre stata l’estrema necessità di smontare il Moloch ideologico vetero capitalista e pan liberista dell’Ue. Ora che l’Ue è servilmente allineata con gli Usa e con la NATO nella guerra contro la Russia tale necessità si fa ancor più stringente ed importante.
Abbiamo un estremo bisogno di decodificare i moti, tanto artificiali quanto malsani, che sovraintendono la costruzione dell’Ue, sia nell’intento di consegnare una coscienza di classe alla vasta area sociale che “dubita” della bontà dell’“operazione Ue”, che nell’intento di costruire una vasta resistenza di massa al titanico tentativo che porta avanti il potere capitalistico sovranazionale europeo diretto a “razionalizzare” la costruzione dell’Ue, rendendo tale processo un “dato di natura” immodificabile, al quale ci si possa genuflettere come i primi esemplari del genere Homo si genuflettevano al fuoco.
Credo si possa strutturare un discorso (o meglio “il discorso”, come categoria politica e filosofica) sull’Ue ponendoci tre domande fondamentali:
– qual è, nell’essenza, la natura politica, storica, ideologica dell’Ue?
– L’Ue è un destino già scritto, storicamente inevitabile o la sua perduranza storica (o il suo fallimento e la sua rimozione dalla storia, à rebours) possono dipendere dagli interessi concreti del movimento operaio complessivo europeo, dai popoli e dagli Stati dell’Ue? In altre parole: se gli interessi dei lavoratori, dei popoli e degli Stati dell’Ue dovessero collidere – come collidono – con la natura dell’Ue, si dovrebbe o no lottare per porre fine all’esperienza storica dell’Ue? Per la stessa conquista della liceità politica e culturale dell’uscita di un Paese, di un popolo, di uno Stato dall’Ue?
– Esiste, allo stato delle cose, un’autonomia, un’identità dell’Ue? Esiste un profilo identitario – politico, culturale, ideologico – che possa definire l’Ue come polo autonomo nel contesto euro-asiatico, planetario, geopolitico? L’Articolo 5 della Costituzione italiana (relativo all’indivisibilità della Repubblica Italiana) potrebbe essere applicato, senza dubbi alcuni, all’Ue? L’Ue avrebbe la densità storica, politica, culturale per poter essere descritta dall’Articolo 5 della Costituzione Italiana?
Prima questione, relativa all’essenza politica, storica e ideologica dell’Ue: ci è particolarmente utile, a questo proposito, un articolo sul Mercato Comune Europeo (MEC) apparso su “L’Unità” del 28 luglio 1957 (anno del Trattato di Roma sul MEC).
Ricordando che il PCI di quella fase storica italiana fu l’unica forza politica ad opporsi all’integrazione liberista europea e che quella sua posizione di carattere antimperialista “racconta”, anche, della violenta mutazione genetica che sostenne il trapasso dal PCI “togliattiano” di quegli anni ‘50 al PCI del “berlinguerismo” maturo (per non parlare dei tristi, successivi e attuali epigoni di destra ultra liberista del Partito che fu di Gramsci, Togliatti e Longo), va rimarcato come, nell’articolo de “L’Unità” citato, emerga un’analisi del MEC che potrebbe oggi essere totalmente utilizzata come griglia di lettura dell’Ue.
Come dire: ciò che è cambiato non è la natura economica, politica e ideologica dei processi di integrazione europei, ma radicalmente cambiata è la natura delle attuali organizzazioni politiche -a partire dal PD, il vero braccio armato dell’Ue e della NATO in Italia- che pretendono ancora di rappresentare gli interessi dei lavoratori e spacciarsi per forze “di sinistra”.
Scrive, tra l’altro, “L’Unità” del 28 luglio 1957:
“Al MEC hanno aderito Italia, Francia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo, vale a dire le nazioni della cosiddetta «piccola Europa». Questi sei paesi, attraverso il trattato, si impegnano: a eliminare i dazi doganali e le altre restrizioni riguardanti la circolazione delle merci tra gli aderenti, stabilendo in pari tempo tariffe doganali comuni per gli scambi con i paesi estranei al MEC; a realizzare la libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali nell’ambito dei sei paesi; al coordinamento e all’avvicinamento delle legislazioni nazionali in materia economica; alla creazione di un «fondo sociale europeo» da utilizzare per indennizzare i lavoratori licenziati in seguito alla smobilitazione delle fabbriche che possono essere chiuse in conseguenza del MEC; e infine all’istituzione di una banca europea per effettuare investimenti nei singoli paesi aderenti”.
È innanzitutto impressionante come “gli impegni” del Trattato sul MEC ricordati da “L’Unità” del ‘57 siano pressoché sovrapponibili, nella loro natura di opzioni iperliberiste spacciate come politiche per lo sviluppo, alle proposte che, per il disegno economico, segnano tanta parte del Trattato di Lisbona, a volte persino attraverso un tessuto semantico quasi identico. Ma mentre verso le proposte – grondanti un sentimentalismo sociale finto socialdemocratico subito deturpato da una costante apologia dell’anarchia del mercato e della liberazione degli spiriti animali capitalistici – contenute nel Trattato di Lisbona, e naturalmente anche nel Trattato che lo precede, quello di Maastricht, va la totale adesione dell’intero arco delle forze politiche parlamentari italiane, così rispondeva, alle stesse proposizioni iperliberiste europee, il PCI del ‘57, su “L’Unità”:
“L’elemento determinante del MEC è la necessità di rafforzare su un piano politico, oltre che economico, i grandi monopoli occidentali legati con quelli americani. Il MEC insomma è una manifestazione, sul terreno economico, della politica di divisione del mondo in blocchi, che sul piano militare si esprime con la NATO. Di fronte al fallimento dei tentativi di realizzare l’unità politica si è ripiegato sul tentativo di costituire un’unità economica. II promotore europeo del MEC, il ministro degli esteri belga Spaak, ha dichiarato con molta franchezza che il trattato è stato dettato dalla necessita di «non farsi risucchiare dal vuoto politico seguito al fallimento della CED». Dopo aver dato vita al MEC, Spaak è stato nominato segretario generale della NATO”.
Il PCI del ‘57, cioè, riconosce nel Trattato di Roma per il MEC quella subordinazione economica e politica del grande capitale europeo all’imperialismo USA che portava la stessa Europa del MEC a subordinarsi alla NATO.
Non vi è anche in ciò un elemento totalmente sovrapponibile alle politiche attuali dell’Ue, compresa la sua subordinazione all’attuale Nato? E ciò non vuol forse dire che è la stessa, intrinseca modalità dell’integrazione del grande capitale transnazionale europeo a determinare la natura economica, politica, ideologica neo imperialista dell’Ue?
C’è qualche fatto storico che più di altri disvela la ferocia antisociale insita nel processo di costruzione dell’Ue, come “i fatti di Grecia” che vanno dal 2007/2008 sino ad ora?
La Troika europea, in quegli anni, impone ad Atene e ad Alexis Tsipras (tremebondo leader tanto socialdemocratico quanto parolaio di cui, inevitabilmente, si innamorano tutti i comunisti radical italiani, la sinistra arcobaleno, i bertinottiani e i post-bertinottiani d’Italia) “Tre piani” di rientro da quel terribile debito che la Grecia aveva contrattato con la BCE, “Tre piani” di “prestiti” miliardari che già in partenza sottendevano politiche di lacrime e sangue per il popolo greco, privatizzazioni gigantesche, cinghie strette, vera e ampia distruzione del welfare. Che provocarono, tra l’altro, numerosi suicidi tra la popolazione gettata nel lastrico, tra gli artigiani, i commercianti, i pensionati che all’alba s’aggiravano come topi umani tra i cassonetti di Atene, in cerca di rifiuti commestibili da riporre in quelle buste di plastica che tenevano nelle mani come una divisa della loro improvvisa miserabilità. Quando il 20 agosto del 2018 la Grecia esce ufficialmente dal “Terzo piano” di “aiuti” dell’Ue il quadro sociale ricorda – come cantava Francesco De Gregori – “il crollo di una diga”.
La disoccupazione, in quell’agosto 2018, è di circa il 22%; la metà dei giovani sotto i 24 anni non ha un lavoro e particolarmente colpita, sul piano occupazionale, è la generazione degli over 50; il salario medio di un lavoratore del settore privato è crollato a 500 euro mensili e lo stipendio medio generale è di 400 euro, mentre, per ordine della Troika, la contrattazione collettiva è totalmente abolita.
L’orrore delle politiche dell’Ue guidate dalla Germania della Merkel e dalla Banca Centrale Europea diretta da Mario Draghi contro il popolo e lo Stato della Grecia, è esattamente anticipato da “L’Unità” del ‘57 nella sua parte relativa a “La situazione della manodopera”:
“Il Trattato di Roma non garantisce ai lavoratori di ogni singolo paese aderente una situazione nuova, di maggior occupazione, di migliori salari, di sicurezza del posto di lavoro; questa riguarda in modo particolare i lavoratori italiani. II confronto tra i guadagni orari degli operai dell’industria dei sei paesi, mostra infatti l’Italia all’ultimo posto. È noto al contrario che nel nostro paese c’è una disoccupazione permanente di circa due milioni di lavoratori che non ha riscontro in alcuno degli altri paesi del MEC. La parte del trattato relativa alla «libera circolazione di lavoratori» è una di quelle che maggiormente interessano il nostro paese, ma non è stata stabilita a questo proposito una disciplina precisa…Le speranze di una sensibile diminuzione della nostra disoccupazione in seguito alla liberalizzazione prevista dal Trattato non possono essere convalidate in nessun modo. Inducono al pessimismo soprattutto i seguenti fatti: si prevede un aumento di produttività ma non una riduzione degli orari di lavoro, sarà richiesta mano d’opera specializzata ed altamente qualificata mentre quella italiana disoccupata si caratterizza proprio per la sua bassa qualificazione (sotto questo aspetto l’economia italiana corre addirittura il rischio di vedersi privata della mano d’opera migliore attraverso l’emigrazione degli operai specializzati). Inoltre la mano d’opera italiana entrerà in concorrenza sugli stessi mercati con la mano d’opera – a bassissimo costo – dei paesi d’oltre mare”.
“L’Unità” del ‘57, peraltro, mette a fuoco uno dei punti cardinali della questione dell’integrazione europea, quella relativa alla liberalizzazione degli scambi, che segnando di sé anche i Trattati di Maastricht e di Lisbona e presentandosi come l’innovazione per uno sviluppo democratico, rivela invece il cuore nero del liberismo da spiriti animali che è stato alla base sia della costituzione del MEC che dell’Ue.
Scrive “L’Unità” di allora:
“Il MEC prevede che in un periodo variante tra i 12 e i 15 anni le tariffe doganali in vigore negli scambi tra i paesi aderenti verranno progressivamente ridotte fino alla loro totale eliminazione. Lo schema programmatico di riduzione delle tariffe è quanto mai preciso e dettagliato e costituisce il punto centrale delle disposizioni del trattato. La stessa cosa si può dire per ciò che riguarda i contingenti cui sono ancora sottoposti gli scambi di merci tra i paesi della «comunità europea». L’eliminazione di queste tariffe provocherà una concorrenza molto più aspra tra le diverse ditte operanti nei paesi aderenti: se si esamina la struttura industriale e In potenza economica delle varie nazioni, si comprende che la posizione dell’Italia è in generale la più debole di tutte quante, tanto è vero che finora i dazi doganali italiani sono stati i più alti, proprio per proteggere la nostra produzione dalla più robusta concorrenza straniera (la media dei dazi doganali sul prodotti della media industria meccanica, che in Italia è superiore al 20 per cento del valore dei manufatti, in Germania scende a circa l’otto per cento).
A questo punto potrebbe sorgere la domanda: perché gli industriali non si oppongono al MEC. II fatto è che gli iniziatori del MEC sono stati i grossi monopoli industriali che all’interno del mercato comune avranno sufficiente forza per poter sviluppare i loro affari ai danni dei piccoli produttori, sia nazionali che degli altri paesi. La Fiat ad esempio, grazie agli investimenti americani, è riuscita a portare la sua produzione a un’efficienza tale da potere, con i suoi prodotti di massa, battere la concorrenza di tutte le altre case automobilistiche del mercato comune, in quanto è la più grande industria privata in questo campo. Essa inoltre, attraverso il MEC potrà partecipare in posizione solida alla creazione di una forte industria aereonautica europea, oggi praticamente inesistente, e alia spartizione di commesse belliche in questo settore. II coordinamento economico di cui si parla nel trattato si risolverà in pratica in intese sempre più strette tra i vari monopoli per la spartizione del mercato a scapito dei piccoli e medi produttori, sostituendo così alla protezione doganale una spartizione delle sfere di influenza tra i grandi monopoli. Inoltre la riduzione dei dazi avverrà con gradualità e criteri che favoriscano gli interessi dei grandi monopoli. promotori del MEC, ai danni delle Industrie non monopolistiche”.
Alla luce di ciò che è divenuta l’attuale Ue, questo de “L’Unità” del ‘57 non è un semplice articolo: è una preveggenza.
La “libera circolazione dei capitali” è uno dei capisaldi dell’Ue nata dal Trattato di Maastricht. Ma anche per ciò che riguarda questa colonna ideologica dell’Europa schumpeteriana, dell’Ue segnata dalla “burrasca della distruzione creatrice” dell’ex Ministro delle Finanze del governo austriaco, vale la pena riproporre un passaggio dell’articolo de “L’Unità” del ‘57: “La «Libera Circolazione dei capitali» significa che i monopoli di ognuno dei sei paesi sono liberi di trasferire i loro capitali da una zona all’altra scegliendo quella dove esistono le possibilità di realizzare maggiori profitti. Date le condizioni di inferiorità nelle quali si trova la nostra economia è possibile che, attraverso questa libera circolazione di capitali, vi sia nel nostro paese una penetrazione di tipo imperialistico di capitale straniero, soprattutto tedesco. In secondo luogo è possibile che si realizzi, da parte dei monopoli italiani, una fuga di capitali dall’Italia. Queste eventualità non sono corrette, ma al contrario accentuate dalla istituzione della cosiddetta Banca europea di investimenti. È stabilito infatti nel trattato che questo organismo finanziario funzioni come una comune banca la quale effettua investimenti non dove questi sono richiesti dalle esigenze di ogni singolo paese, ma bensì dove essi offrono più elevati profitti ai monopoli. Quali effetti ciò può avere per le possibilità di sviluppo del Mezzogiorno d’Italia è facilmente arguibile”.
La prima questione che abbiamo posto, dunque, (qual è l’essenziale natura ideologica, politica, economica dell’Ue) trova una risposta nell’inconfutabile liaison che storicamente prende corpo tra la costruzione del MEC e quella dell’Ue: un lungo e omogeneo processo di costruzione di un potere neo imperialista condotto dal capitale transnazionale europeo.
Seconda questione: l’Ue è un destino già scritto, storicamente inevitabile?
Il Trattato di Maastricht viene firmato il 7 febbraio del 1992. Occorre fare attenzione alle date: il 26 dicembre del 1991 viene ammainata dalle cupole del Cremlino la gloriosa bandiera sovietica. Gorbaciov tradisce il movimento comunista e antimperialista mondiale e consegna – per il tempo breve che passerà dalla fine sovietica alla ripresa del fronte antimperialista internazionale – il mondo alle forze imperialiste. Passa poco più di un mese dal suicidio dell’URSS e con la ratifica del Trattato di Maastricht nasce di fatto l’Ue.
C’è una accelerazione forsennata verso il tentativo di costituzione dell’Ue, del suo impianto istituzionale, politico, economico e ideologico. Perché questa accelerazione? Nella risposta a tale quesito risiede buona parte della stessa risposta alla domanda relativa all’inevitabilità storica, o meno, della costruzione dell’Ue.
La “via Gorbaciov” all’autodissoluzione dell’URSS spinge Fukuyama a dichiarare, a nome dell’intero fronte capitalista mondiale, “la fine della storia”. Il capitalismo – asserisce Fukuyama- è natura e dunque immutabile e il socialismo è un’illusione ottica. A partire dalla scomparsa dell’immensa diga antimperialista rappresentata dall’Unione Sovietica le forze imperialiste e capitaliste vedono il mondo come un immenso e totale mercato da conquistare. Con le buone o con le cattive.
Anche il grande capitale transnazionale europeo ha la stessa visione di un intero mondo trasformato in uno sterminato e nuovo mercato. Occorre, in virtù di questa visione, attrezzarsi, partecipare alla lotta interimperialista e intercapitalista, conquistare i nuovi mercati battendo la concorrenza nordamericana e degli altri poli capitalistici mondiali.
Come può attrezzarsi, il grande capitale transnazionale europeo per questa nuova battaglia economica?
Nel modo capitalistico classico: si conquistano i mercati abbattendo il costo delle merci, abbattendo i costi sociali generali e avviando una nuova accumulazione capitalistica generale. Come si arriva a ciò? Abbattendo i diritti, i salari e lo stato sociale. Non in un solo Paese europeo, ma su scala europea.
Come giungere ad una pianificazione iperliberista sovranazionale funzionale agli interessi dello stesso capitale transnazionale europeo?
Attraverso la costituzione di un potere istituzionale sovranazionale in grado di svuotare di poteri gli Stati nazionali, in grado, dunque, di estendere sul piano continentale una “pianificazione” iperliberista capace di tagliare alle radici i residui lacci e lacciuoli lasciati dal retaggio socialdemocratico europeo diffuso, dando modo al grande capitale di avviare una vasta e lunga stagione iperliberista, antioperaia e antidemocratica.
Il prodotto di tutto ciò è l’Ue di Maastricht, che si dota di un parlamento-farsa, che non può nemmeno legiferare ed un Consiglio europeo quale vero cuore del nuovo potere sovranazionale, formato, a conferma e difesa della natura oltremodo verticistica dell’Ue, direttamente dagli esponenti del potere politico e borghese/capitalistico europeo.
La spinta del capitale transnazionale verso l’Ue non ha nulla a che vedere con un vero processo unitario sovranazionale basato sulle pulsioni della dialettica storica e della materialità degli eventi storici unificanti.
Gli stessi Stati Uniti d’America nascono attraverso la lunga lotta delle allora 13 colonie americane che nella seconda metà del ‘700 lottano unite contro l’imperialismo britannico che le domina. Sarà sulla base di quella lotta anticolonialista che le 13 colonie troveranno la loro coesione e la loro unità, un’unità dalle basi materiali che porta sia alla vittoria contro l’imperialismo britannico che alla Dichiarazione di Indipendenza, nel 1776, degli Stati Uniti d’America. Un nuovo Stato che si dota innanzitutto di un sistema fiscale nazionale dalla natura anche redistributiva: atto statuale primario che l’Ue non adotta mai, poiché la natura intrinseca dell’Ue non può nemmeno immaginare una redistribuzione della ricchezza che vada da Bruxelles verso le aree depresse dell’Ue, una redistribuzione della ricchezza da Berlino verso Atene. Ma, al contrario, la ricchezza deve trasmigrare da un’Atene alla fame ad una Berlino dalle grasse sembianze di un Grostz.
L’Ue è dunque una finzione storica. Non nasce da quella pulsione oggettiva – storica, ideologica, politica, economica- da cui prendono vita gli Stati Uniti d’America. Gli Stati ed i popoli europei non sono sospinti all’unità da eventi storici sovraordinatori. L’Ue è una contraffazione. Essa è un polo imperialista antistorico in contraddittoria ma feroce costruzione.
Seconda domanda: l’Ue è un destino storico immutabile ed inevitabile?
Per procedere nella riflessione: dopo aver constatato l’assenza di una pulsione storica oggettiva degli Stati europei ad unirsi, ora possiamo rimarcare il fatto che tale assenza sia anche il limite insito nel processo di costruzione dell’Ue. Il suo fattore interno impedente l’unità e disgregante della parziale unità.
Il passaggio dalla mitizzazione dell’Ue dei primi anni ‘90 a questa prima metà degli anni 2.000, segnato da una forte impasse del processo unitario e da una nuova contraddizione interstatuale e intercapitalistica tra i diversi Stati europei, la dice lunga sulla fatiscenza storica dell’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa.
Nel Trattato di Maastricht del 1992 non vi è nessun articolo relativo alla possibilità che uno Stato membro dell’Ue possa liberarsi dalla gabbia dell’Ue, di poterne uscire.
Questo perché? Perché la fase successiva all’autodissoluzione “gorbacioviana” dell’URSS, alla conseguente apertura dei mercati mondiali e all’autoelezione del costituendo polo capitalistico sovranazionale europeo a nuovo “concorrente” per la conquista dei mercati mondiali riemersi, produce un’euforia pan-europea che sfocia in una generale mitizzazione dell’Ue.
La nascente mitologia dell’Ue non può, dunque, permettere che appaiano falle nel suo processo costitutivo. La proiezione di questo input sui piani istituzionali la si rintraccia nel fatto che nel Trattato di Maastricht del ‘92 non sono presenti codicilli volti alla possibilità che i Paesi membri possano uscire dall’Ue.
Ma già dalla prima metà degli anni ‘90 il quadro mondiale ed europeo cambia radicalmente. “La fine della Storia” ratificata da Fukuyama rivela la propria, inetta ed iperidealistica natura filosofica. La storia non finisce mai ed aver tentato di collocare una pietra tombale sul socialismo, da parte degli aedi del capitalismo mondiale, si rivela essere ciò che è: non una rilevazione storica ma lo stesso, oscuro, ansioso desiderio del capitale.
Fukuyama non fa in tempo a lanciare nel mondo il proprio assunto sulla fine della dialettica storica, che la storia si rimette prepotentemente in moto e la spinta antimperialista, rivoluzionaria, socialista di nuovo attraversa il pianeta. Dall’America Latina all’Africa e all’Asia – a cominciare dal titanico sviluppo cinese e dal rifiuto della Russia di Putin di offrirsi quale agnello sacrificale del nuovo espansionismo imperialista (rifiuto che si offre come una delle basi materiali della nuova russofobia occidentale) – prende corpo un nuovo fronte dal carattere antimperialista che cambia i rapporti di forza nel mondo, spunta le unghie all’aquila imperialista giungendo a costituire prima i BRICS poi la Banca Mondiale dei BRICS a Shangai, alternativa al FMI e ai suoi prestiti da strozzinaggio universale.
Sul processo di mitizzazione dell’Ue non si abbatte solo il colpo micidiale del repentino cambiamento dei rapporti di forza mondiali tra fronte imperialista e fronte antimperialista: oltre ciò va manifestandosi l’estrema difficoltà del grande capitale europeo a sostenere la concorrenza internazionale con gli altri poli imperialisti, a cominciare dagli USA e dal Giappone. Questione alla quale si aggiunge lo spaventoso default della colossale Banca americana “Lehman Brothers” e la conseguente e profonda crisi del capitalismo mondiale.
Una crisi che travolge anche l’Ue e alla quale Bruxelles e la BCE rispondono con le durissime politiche dell’austerity, imposte su tutto il movimento operaio complessivo europeo.
Peraltro, il 29 maggio del 2005 si tiene il referendum francese sulla Costituzione Europea (Référendum français sur le traité établissant une Constitution pour l’Europe), una chiamata popolare che avrebbe dovuto ratificare la Costituzione Europea messa a punto dalla Convenzione Europea del 2003. La maggioranza degli elettori francesi, invece, boccia, col 55% dei NO ed anche con un’affluenza alle urne del solo 69%, la proposta di Costituzione Europea, infliggendo un altro colpo al processo di costruzione dell’Ue e alla credibilità della stessa Ue di fronte ai popoli d’Europa.
La mitologia ed il ruolo destinale dell’Ue, deciso da “una volontà superiore” che prescinde dagli interessi dei popoli, si incrinano.
Nel 2009 entra in vigore il Trattato di Lisbona, che in parte sostituisce ed emenda quello di Maastricht del ‘92.
Il Trattato di Lisbona, nel suo tessuto semantico e a partire dai rovesci subiti dall’Ue, sembra dotarsi di una vaga veste socialdemocratica che, lessicalmente, sembra in alcuni passaggi stemperare la violenza liberista del Trattato di Maastricht.
Ma ciò è una pura ed ipocrita finzione, un inganno della grammatica, poiché il linguaggio “sentimentale” che fiorisce in alcuni passaggi del Trattato di Lisbona si scontra con una riproposizione secca e durissima della totalità del mercato e della sua natura “anarchica” e selvaggia.
Tuttavia la crisi dell’Ue c’è stata, è stata profonda, la riproposizione dell’Ue come Moloch insindacabile non ha più cittadinanza.
Ed è su questa base che nel Trattato di Lisbona appare l’Articolo 50, che introduce la possibilità, per uno Stato membro, di uscire, anche se attraverso alcune forche caudine regolamentari collocate come mine nel Parlamento europeo, dall’Ue.
Cita infatti l’articolo 50: “Ogni Stato membro può decidere di recedere dall’Ue contestualmente alle proprie norme costituzionali”.
Ed è anche su queste basi materiali – fatiscenza storica e crisi dell’Ue e articolo 50 del Trattato di Lisbona – che le forze comuniste e antimperialiste europee ed italiane possono con razionalità e verosimiglianza porre la questione strategica della fuoriuscita dall’Ue e dall’Euro. Che vuol dire portar fuori i lavoratori e i popoli dal violento e artificioso processo di costruzione del neo imperialismo europeo.
Uscire dall’Ue per andare dove?
La domanda che anche tra le forze politiche, sociali, intellettuali più avanzate ci si pone ha bisogno di una risposta, non ancora degnamente elaborata dagli stessi comunisti e dalle forze antimperialiste. Un vuoto politico e teorico da colmare per rendere più forte e verosimile la lotta per l’uscita dall’Ue e dall’Euro.
“Per andare dove” può iniziare tuttavia a dircelo la S dell’acronimo BRICS, la S del Sud Africa. Questo Paese è ben più lontano dal Brasile, dalla Russia e dalla Cina di quanto lo siano i Paesi dell’Ue e dell’Italia. Il punto, dunque, è che l’appartenenza ad un fronte socialista, antimperialista e progressista mondiale – specie in questa fase storica segnata dall’immenso sviluppo tecnologico mondiale e dalla conseguente e grande restrizione degli spazi planetari – non dipende dalla collocazione geografica di un Paese, ma dalla sua collocazione, dalla sua inclinazione politica e filosofica di fondo. Si sta dalla parte che difende il multilateralismo e la pace, dalla parte che difende gli interessi dei popoli, rompendo col fronte che ripropone il vecchio mondo unipolare, la spoliazione neocolonialista, la centralità politica, economica ed ideologica dell’Occidente, la guerra imperialista e la NATO.
A partire da questa nuova e necessaria weltanschauung, la collocazione geografica di un Paese, imposta e venduta ideologicamente come prima discriminante per la collocazione politica e filosofica nel mondo, è essa stessa retaggio dell’ancien regime imperialista.
Terza domanda: esiste, nella fase data, un’autonomia ideologica, politica e culturale dell’Ue?
La contraddizione che è alla base della costruzione dell’Ue (data dalla natura artificiosa, priva di basi e pulsioni storiche oggettive del processo di unità dell’Ue) ci dice chiaramente di no: l’Ue non possiede una propria autonomia ideologica, politica e culturale.
Ci dice che l’Ue è un gigante dai piedi d’argilla, un progetto incompiuto, terremotabile. Una Creatura del dottor Frankenstein che, priva di autonomia storica ed esistenziale, cerca rifugio tra le braccia di giganti dall’identità ben più sicura: gli USA e la NATO.
I fatti concreti che dimostrano tale assunto potrebbero essere i tanti granati necessari per una lunga collana:
– durante un summit dei ministri della Difesa dell’Ue convocato a Bratislava nel 2016 in relazione alla questione dell’esercito europeo, Federica Mogherini (PD, “renziana”), allora Alta Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la politica di Difesa, e Roberta Pinotti, Ministro della Difesa nel governo Renzi-Gentiloni (anch’essa PD e “renziana”) rappresentano le massime spinte per la costruzione dell’Armée europea. Importante di questo summit, tuttavia, fu un fatto riportato da gran parte della stampa europea: ai lavori del summit entra (la stampa europea lascia spazi d’ambiguità sul fatto che questa entrata fosse o meno concordata) Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, il quale (è questo che è riportato dalla stampa europea ed italiana) intervenendo a fine discussione afferma perentoriamente: “D’accordo per l’esercito europeo. Ma importante sarà che il suo Comando venga posto nello stesso Quartier Generale della NATO, a Bruxelles”. Come dire (e detto senza replica alcuna dei presenti): “Ok all’esercito europeo, ma il Comando sul vostro esecito è della NATO”;
– nel summit G7 del giugno 2021 in Cornovaglia Biden impone a tutti Paesi dell’Ue un terrificante Documento di guerra (il Documento di Carbis Bay) in cui si progetta minuziosamente la costruzione di un vastissimo fronte internazionale militare contro la Russia e la Cina. Tutti i Paesi europei – compresa la Germania, che più di ogni altro ha bisogno del gas russo – lo firmano, inquietati ma servili e comunque in netto contrasto con i loro stessi interessi strategici;
– la NATO è costituita da 30 Paesi, di cui 21 sono dell’Ue (e tra poco saranno 23, con l’ingresso nella NATO della Svezia e della Finlandia). L’Ue è composto da 27 Paesi, di cui, dunque, 23 appartenenti alla NATO. In questa fase la Presidente della Commissione Ue Ursula von Der Leyen spinge ossessivamente, in modo irresponsabile e pernicioso, per l’entrata dell’Ucraina nell’Ue. Poichè, come dimostrano i fatti, l’entrata nell’Ue è per il 90% delle volte propedeutica all’entrata nella NATO, la spinta della von Der Leyen ha un solo significato: la conferma del progetto strategico, messo a punto da tempo e ben prima dell’operazione speciale russa in Ucraina (come ha affermato Putin lo scorso 9 maggio, nel giorno della commemorazione della Vittoria sul nazifascismo) volto a trasformare l’Ucraina in una sterminata Base USA-NATO a ridosso della Russia, una Base dotata di testate nucleari in grado di colpire Mosca in 4 minuti e in tempi rapidi anche Pechino;
-l’Ue ha partecipato in modo determinante a costruire l’accerchiamento della Russia, un accerchiamento dalle impressionanti proporzioni, che ha disegnato un semicerchio militare dal polo artico sino alla Georgia e si è dotato di potenti retrovie belliche tramite la collocazione di truppe ed armi in ogni Paese Ue-NATO dell’Europa del Centro e dell’Est;
– l’Ue ha partecipato, con gli Usa, sia alla costruzione, dal 1991 in poi, del movimento anti russo e filo NATO arancione ucraino che al colpo di stato di Euro-Maidan del 2014, partecipando alla messa in campo delle milizie nazifasciste golpiste e poi alla costruzione del Battaglione Azov, all’addestramento dell’esercito ucraino e all’immensa fornitura (ben prima e “naturalmente” dopo l’intervento russo) di armi e risorse economiche a Kiev;
– l’Ue ha versato alla presidenza Zelenski, solo durante questa fase del conflitto, circa 1 miliardo e 700 milioni di dollari per le armi.
L’invio, oggi, delle armi dell’Ue e dell’Italia a Kiev, assieme alla partecipazione – cieca, subordinata e fortemente autolesionista – alle sanzioni contro la Russia, sono tra i segni forti della totale subordinazione dell’Ue agli Usa e alla NATO. Dell’inesistenza di un’autonomia politica, ideologica e storica dell’Ue.
Vi sono aree comuniste e aree antimperialiste, nel nostro Paese, che pur manifestando la loro linea volta all’uscita dell’Italia dalla NATO, balbettano alquanto rispetto ad una linea volta all’uscita dell’Italia dall’Ue e dall’Euro.
Queste aree sappiano che la lotta per liberare il nostro popolo dalla NATO sarebbe una lotta dimezzata se non fosse completata dalla lotta per liberare il nostro popolo dai cappi dell’Ue e dell’Euro.