di Alberto Lombardo e Alessandro Pascale
Nel sito www.storiauniversale.it, che raccoglie i contenuti della Storia del Comunismo, sono stati raccolti preziosi documenti della storia e della teoria del movimento operaio e della teoria marxista-leninista.
Quello a cui facciamo riferimento in questo articolo riguarda un tema di stringente attualità: cosa significa “compromesso” per i comunisti, come è stato delineato da Lenin e prima ancora da Marx ed Engels e poi da Stalin, da Mao e da altri eminenti maestri e dirigenti comunisti.
Nella lettera del 5 maggio 1875 a Wilhelm Brake che accompagnano le sue Note di critica al Programma di Gotha che sigilla la fusione dell’Associazione Generale degli Operai Tedeschi, fondata da Lassalle nel 1863, e il Partito Socialdemocratico dei Lavoratori che si unirono e fondarono il Partito Socialista dei Lavoratori. Marx scrive:
«Ogni passo di movimento reale è più importante di una dozzina di programmi. Se non si poteva dunque – e le circostanze non lo permettevano – andare oltre il programma di Eisenach, si sarebbe dovuto semplicemente concludere un accordo per l’azione contro il nemico comune. Ma se si fanno dei programmi di principio (invece di rinviarli sino al momento in cui un programma sia stato preparato da una più lunga attività comune), si elevano al cospetto di tutto il mondo le pietre miliari dalle quali si giudica il livello del movimento di partito. I capi dei lassalliani sono venuti a noi perché le circostanze li hanno costretti. Se si fosse loro dichiarato in anticipo che non si sarebbe fatto alcun traffico ai principi, si sarebbero dovuti accontentare di un programma di azione o di un piano di organizzazione per un’azione comune.»
Questo passo è più che famoso, ma malauguratamente il senso ne viene stravolto o perché si cita solo la frase iniziale, che prefigurerebbe quasi un Marx disinteressato alla teoria e ai “principi”, o solo quella finale, prefigurando un Marx tetragono e refrattario rispetto a qualunque compromesso. Solo la lettura completa ci fa capire quanto Marx sia ben disposto ai quei compromessi che però non producono alcuna breccia nella teoria. Come dice lui: «un accordo per l’azione contro il nemico comune». Siamo ancora in una fase primordiale della creazione dell’organizzazione autonoma e indipendente del proletariato, quella cosa che poi ha dato luogo alla forma leninista del Partito. Ma già in questa fase embrionale Marx delinea con esattezza preveggente quale dev’essere il comportamento dell’avanguardia cosciente del proletariato. In una parola: inflessibilità sui principi, flessibilità sulla tattica.
Si potrebbero fare molteplici esempi in cui Marx ed Engels abbiano ragionato e operato in termini dialettici cercando di far compiere un passo in avanti verso un reale progresso, ma passiamo oltre, analizzando l’insegnamento di Lenin, sintetizzato nei passi riportati in [1], che qui invitiamo a leggere con attenzione. Si ricorderà in tal senso come Lenin non si sia limitato a legittimare dal punto di vista teorico dei compromessi, ma li abbia messi in pratica diverse volte sia prima che dopo la Rivoluzione. Non erano forse compromessi quelli stretti con le tendenze moderate del partito socialdemocratico russo in molteplici fasi in cui il gruppo rivoluzionario era troppo debole? Non erano forse compromessi quelli di accettare le offerte degli imperialisti tedeschi di aiutare Lenin a raggiungere la Russia a seguito della prima fase (febbraio 1917) della Rivoluzione? Non erano forse compromessi quelli che hanno spinto ad accettare le durissime condizioni imposte sempre dai “briganti” tedeschi nel marzo 1918 per la concessione della pace, attraverso il trattato Brest-Litovsk? Non erano forse un gigantesco compromesso, sempre dettato dall’analisi empirica della fase, l’insieme dei provvedimenti politici ed economici riassunti nella formula della NEP, la “nuova politica economica” che ripristinava elementi di libero mercato e di capitalismo nel sistema sovietico? Certo che erano compromessi, ed erano dettati dalla realpolitik, dalla consapevolezza cioè che a volte per preparare un percorso, per fare “due passi in avanti”, occorre prima farne “uno indietro”. Chi non ha chiara la differenza tra tattica e strategia non sarà mai capace di conciliare utopia e realismo politico. Sognare sì, diceva Lenin, ma “a occhi aperti”.
L’insegnamento di Lenin è stato continuato da Stalin. È ben noto il patto di non aggressione che nell’agosto del 1939 l’Unione Sovietica stipulò con la Germania nazista. Nessun commercio sui principi, ma necessità tattica suprema (peraltro riuscita) di allontanare temporaneamente la guerra e il fronte nemico, per incrementare la produzione e la preparazione militare in vista di un conflitto comunque ritenuto inevitabile. Un patto che ha scioccato milioni di comunisti in tutto il mondo, imbevuti di idealismo e incapaci di comprendere che senza quella mossa e le centinaia di chilometri guadagnati sul confine con la Germania (vd occupazione-liberazione della parte orientale della Polonia) oggi parleremmo tutti in tedesco sotto un regime esplicitamente nazista.
Un secondo esempio riguarda tutta la costruzione del socialismo e la collettivizzazione delle terre. Ne La vertigine del successo Stalin denuncia certe abnormi pressioni che dirigenti del Partito locali facevano sui contadini per imporre loro una collettivizzazione forzata. Anche quello è un compromesso che tiene conto intelligentemente delle condizioni reali e delle possibilità di poter imporre una certa velocità al processo senza farlo deragliare.
Non era infine un compromesso tattico aver fatto ricorso perfino al patriarca di Mosca, ridando ossigeno alla Chiesa ortodossa, e perfino alla retorica del patriottismo russo, per far fronte alla gigantesca invasione militare lanciata dai tedeschi e dai loro alleati fascisti nel 1941? Certo che era un compromesso, che però non ha minato né il carattere laico dell’URSS, né il suo internazionalismo (per quanto molti storici borghesi si affannino a dire il contrario), bensì ha favorito la mobilitazione di ogni singola energia per rispondere all’aggressione che minacciava la schiavizzazione dei popoli slavi.
Andiamo ora in Cina. Nonostante nel 1927 il Kuomintang (KMT) avesse realizzato il massacro di Shanghai, e nel 1934/35 l’Armata Rossa cinese (poi Esercito Popolare di Liberazione) dovette sfuggire alla manovra di annientamento, nel dicembre 1936 il KMT fu costretto ad accettare una sospensione temporanea della guerra civile cinese e la formazione di un’alleanza col PCC contro il Giappone. Anche qui, nessun abbandono da parte del PCC della propria organizzazione politica e militare che poi fu fondamentale per riprendere la guerra contro i nazionalisti e arrivare alla fondazione della Repubblica Popolare.
Anche nella costruzione del socialismo in Cina la dirigenza del PCC ha dovuto accettare dei compromessi che tenessero conto della concreta situazione economica e del grado di sviluppo delle forze produttive, aprendo con Deng Xiaoping (1978) alle riforme e inserendo elementi di mercato nella regolazione della produzione e della distribuzione. Oggi vediamo come i frutti di quei compromessi hanno dato un impulso straordinario al Paese, nello sviluppo delle forze produttive e nell’eliminazione della povertà e delle altre forme di sottosviluppo. Il prestigio di cui gode il PCC nel suo Paese non ha eguali nel mondo, prova della giustezza della linea seguita nei decenni.
Gli esempi potrebbero continuare, citando Cuba, il Vietnam e tutte quelle realtà dove il partito di stampo leninista ha vinto. Mai e in nessuna occasione questi compromessi hanno però messo in discussione il ruolo fondamentale e indipendente del partito comunista, la sua ideologia e la professione che esso fa delle finalità del proprio agire politico, il socialismo. È però vero che in ognuno di questi singoli casi è seguita, da parte più o meno ampie del movimento operaio e comunista, l’accusa di tradimento verso quelli che sono i principali punti di riferimento della storia del movimento comunista. Che cosa ci dice questo? Da un lato che la mentalità idealista e borghese continua ad essere presente nel nostro campo, perfino nel momento in cui i comunisti siano riusciti a prendere il potere e a costruire una società socialista. Da un altro lato è evidente come tale mentalità sia quindi molto più forte nel momento in cui il Partito operi in una condizione di minoranza e opposizione ad un regime borghese. È quindi perfettamente normale che si formino di continuo elementi disgregatori, nel momento in cui un partito, ampliandosi e crescendo socialmente, non riesca a far maturare politicamente l’intera massa dei suoi sostenitori, e perfino dei suoi iscritti. La storia insegna ma non ha scolari, lamentava già Gramsci. Oggi come un secolo fa emerge in tal senso il rapporto tra formazione storico-politica e capacità dialettica di orientarsi e agire correttamente nel contesto politico e sociale.
Venendo all’oggi, ben consci dell’improponibile comparazione tra il partito di Lenin, Stalin e Mao, ma ammaestrato dai loro insegnamenti, il Partito Comunista in Italia sta conducendo una battaglia per aggregare forze che si oppongono coerentemente contro il governo peggiore e più pericoloso che la Repubblica abbia mai avuto: il governo Draghi.
Due i punti di riferimento: le discriminanti e l’autonomia ideologica.
Le discriminanti di questa aggregazione di forze sono la difesa della Costituzione repubblicana del 1948, l’opposizione ad ogni misura di tipo neoliberista, alla compressione dei diritti costituzionali sociali e individuali attraverso misure “sanitarie” che non hanno nulla a che fare con la protezione della popolazione, alle alleanze imperialiste a cui l’Italia partecipa a cominciare dalla NATO e dall’Unione Europea, con la rivendicazione chiara dell’uscita da tali organizzazioni criminali come premessa necessaria per il riscatto integrale delle classi lavoratrici e per il rilancio dello “Stato sociale”.
Queste discriminanti fanno sì che le forze che aderiscono a questa aggregazione non possano avere quelle caratteristiche equivoche che ne minerebbero alla base la coerenza. Non ci possono essere forze di destra o addirittura neofasciste, perché queste – oltre a essere storicamente colluse coi peggiori circoli atlantisti e facendo del loro nazionalismo una caricatura buona solo a velare i loro propositi reazionari e antipopolari – non possono certo accettare le discriminanti sopra esposte. Se poi ci fossero singoli infiltrati e opportunisti che intendano agire in maniera sotterranea per sabotare e condizionare le organizzazioni più giovani e influenzabili, sarà compito di tutti i compagni segnalarli alle istanze superiori della propria organizzazione e delle altre forze alleate, ricordando che la difesa della Costituzione repubblicana implica automaticamente la difesa e la valorizzazione dei principi e dei valori della Resistenza partigiana antifascista. La storia del movimento operaio e comunista insegna peraltro che infiltrati, sabotatori, provocatori e fascisti si sono sempre infiltrati nelle nostre organizzazioni. Il compito del comunista non è quindi scappare, ma lottare per smascherarli ed espellerli, se necessario sporcandosi le mani ed evitando di rifugiarsi nella propria torre di avorio dove poter sfoggiare la propria “anima bella”. Di anime belle ce ne sono fin troppe, e non servono proprio a niente.
Quanto all’indipendenza ideologica e all’autonomia organizzativa dei comunisti, essa non solo non è in discussione, ma non mette reciprocamente in discussione neanche quella delle forze aggregate. Sarebbe bene piuttosto concentrare le energie per la buona riuscita della Conferenza di Organizzazione Nazionale, tanto necessaria a formare e radicare il Partito in vista delle battaglie future. Nessuna confusione, nessuna fusione.
Non ci stupiamo del fuoco concentrico che i grandi organi di informazione borghese stanno riservando all’avvio di questa esperienza che promette di essere la vera e unica novità nel panorama politico italiano. Non ci sorprendiamo nemmeno che ci siano compagni incapaci non solo di comprendere, ma perfino di accettare la legittimità di un’operazione del genere. Se le accuse di tradimento sono piovute in passato sui grandi maestri del socialismo, era prevedibile che arrivassero oggi anche sulla nostra dirigenza. Quello che manca ai critici è una chiara proposta alternativa in un contesto segnato da tre fattori: la guerra mondiale, il totalitarismo “liberale” e una crisi di portata tale da mettere a rischio l’agibilità politica per i comunisti.
È notizia freschissima quella dell’arresto di quattro sindacalisti con le accuse più varie: non è altro che l’ennesimo tassello di un violento controllo sociale attuato con metodi intimidatori e mafiosi. Certo, se fossimo abbastanza forti, potremmo porci da soli alla testa delle masse furiose per il carovita e la repressione, ma dobbiamo riconoscere che non abbiamo ancora quella forza, che non siamo ancora riusciti a sconfiggere le correnti opportuniste, riformiste, estremiste e revisioniste che dominano nell’arco della sinistra di classe; purtroppo il marxismo-leninismo e il materialismo dialettico rimangono ancora degli sconosciuti non solo nella gran parte del movimento operaio (compreso quello sindacale), ma perfino di quello comunista.
Avere contezza dei rapporti di forza attuali è realismo politico. Capire come adeguare i nostri principi all’attuale contesto è capacità politica. Costruire un fronte sovranista di tendenza socialista non è solo una proposta adeguata alla fase e ai rapporti di forza esistenti (sia con le forze di maggioranza, che di opposizione), ma anche un lavoro concreto e utile, non solo per il popolo italiano, ma per l’intero proletariato mondiale. Costruire un’opposizione politica e istituzionale di tendenza oggettivamente antimperialista in un paese importante come l’Italia, un paese non secondario nel grande polo imperialistico occidentale, è un lavoro internazionalista e rivoluzionario.
Non saranno rivoluzionari coloro che faranno le marchette a Draghi e al PD. Non saranno rivoluzionari coloro che denunciano la Cina di imperialismo e non prendono posizione nel conflitto in Ucraina. Non saranno rivoluzionari nemmeno coloro che continueranno a parlare di “rompere i trattati” dell’UE proponendone una riforma. Il meglio che si potrà dire a tutti costoro sarà al limite di essere dei buoni “social-imperialisti”, ossia la forma preferita dalla borghesia per proseguire l’oppressione non solo sul proprio proletariato, ma anche su quello degli altri continenti. Chi è quindi il fascista o il rossobruno? Chi propone l’unica strada concreta di combattere l’imperialismo, oppure chi gli fa l’occhiolino promettendo il proprio supporto in cambio di qualche prebenda? L’unica prospettiva rivoluzionaria è quindi quella che passa dall’abbattimento dell’élite borghese collusa con gli agenti imperiali di Washington e Bruxelles. Il resto è sterile riformismo arancione. [2]
Su questi aspetti tutti i compagni “puristi” dovrebbero riflettere maggiormente.
Nel tracciare tale tattica non stiamo stracciando le Tesi del III Congresso: non stiamo infatti facendo compromessi con forze che in un modo o nell’altro abbiano contiguità col governo. Non lo abbiamo fatto rispetto al M5S, contrariamente ad altre forze, non lo facciamo in nessuna sede, anche la più remota e periferica con forze di “sinistra” filogovernativa. L’aggregazione “Uniti per la Costituzione” è di carattere opposto a quelle infauste che hanno nei decenni visto sfilare ulivi, arcobaleni, personaggi importati dalla Grecia moderna.
In questa aggregazione i comunisti hanno la possibilità di esercitare la propria egemonia, se saranno capaci di proporsi credibilmente a un popolo di lavoratori eterogeneo e disperso, ma che sente come necessità vitale l’urgenza dell’unione nelle piazze, nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni dove si potrà portare questa battaglia.
Il momento è ora!
[1] https://www.storiauniversale.it/42-L-ARTE-DEL-COMPROMESSO-INSEGNATA-DA-LENIN.htm
[2] su questo tema si consiglia https://www.marx21.it/internazionale/europa/socialismo-o-imperialismo-europeo/
2 Comments
Se non ora, quando?
chissà quando nelle scuole verrà insegnato il marxismo-leninismo obbligatoriamente, chissà