di Mariano Mastuccino
Nonostante i proclami in streaming e le dirette sui social, negli atti del Governo per contrastare la crisi in questa pandemia sono stati completamente dimenticati i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo: decine e decine di maestranze differenti di cinema, teatro, tv, danza, circo, sport, dai facchini ai truccatori, dagli scenografi ai macchinisti, poi montatori, elettricisti, addetti stampa, fonici e tecnici del suono. Senza contare i molti tra loro anche impegnati in laboratori, accademie, insegnamento scolastico ed extra-scolastico. A tutto questo si aggiunge poi l’indotto, che va dall’editoria al settore manifatturiero, dal turismo alla ristorazione.
Al di là dell’immagine di creatori e costruttori di sogni e bellezza, coloro che lavorano nel mondo dello spettacolo sono lavoratori tout court. Attorno a questo mondo si muove un’economia non floridissima (il FUS, Fondo Unico per lo Spettacolo registra un -55% di fondi dal 1985, data della sua creazione), con sperequazione altissima tra pochi soggetti molto grandi e tanti altri minuscoli, tra grandi imprese culturali e dell’intrattenimento che hanno accesso facile ai fondi, e i molti assolutamente indipendenti, e meno considerati. Si tratta complessivamente di un settore capace di muovere fino 255 miliardi di euro, generandone a sua volta 92. All’inizio della crisi si calcolavano perdite di 20 milioni di euro a settimana (dati AGIS aggiornati alla settimana antecedente al blocco nazionale), tenendo soltanto conto dei danni derivanti dalla cancellazione di spettacoli dal vivo.
Assomusica, ad esempio, stima per il settore dei concerti dal vivo una perdita di circa 60 milioni nei primi due mesi. Dati sicuramente parziali, che vanno rivalutati, probabilmente al rialzo, proiettati su scala nazionale e considerati sul medio-lungo periodo in quanto quello dello spettacolo dal vivo sarà forse l’ultimo settore ad aprire (il Centro Studi Doc ipotizza circa 8 miliardi complessivi di perdite soltanto nel primo mese di chiusura). I numeri appaiono ancora più implacabili se si tiene conto che il MiBACT si è mosso soltanto dopo le proteste dei lavoratori a seguito dei DL 18 e 23 (Cura Italia e Liquidità), riservando 20 milioni di euro a tutti gli esclusi dal FUS 2019, che era stato finanziato in precedenza con 130 milioni. Appare evidente come, in proporzione, si tratti di briciole.
Nei primi giorni del blocco alcuni teatri si sono apprestati a rescindere, senza alcuna possibilità di contrattazione, o a “congelare” i contratti in essere (motivo per cui i lavoratori, ancora formalmente considerati dipendenti al momento dell’entrata in vigore del Cura Italia, non hanno diritto al bonus di 600 euro), o a tentare strade “creative” attingendo alle ferie maturate o al FIS (Fondo d’Integrazione Salariale) che copre il 60% dello stipendio per nove settimane.
I criteri di selezione del bonus di 600 euro escludono molti “intermittenti”, precari vittime di contratti “usa e getta”. A fronte delle legittime proteste, i criteri per l’accesso al bonus sono stati rivisti, ma con risultati tardivi oltre che insufficienti, perché sono ancora molti gli esclusi. A due mesi dalla cancellazione dei primi eventi, il Ministro Franceschini ha assicurato che nessun teatro, nessun cinema, nessun artista verrà lasciato solo. Peccato che una dichiarazione del genere, pietistica e vuota, arrivi con due mesi di ritardo e che nel frattempo tutti, dalle scuole di cinema alle piccole compagnie con teatri o spazi in gestione, abbiano dovuto fare il conto con tributi e cartelle alle quali non si è applicata alcuna moratoria. Nella stessa intervista, Franceschini ha confermato quella che definire gaffe è un eufemismo։ creare una piattaforma in cui offrire, a pagamento, quello che non si può, per ora, proporre nelle sale. Una Netflix della cultura, ha detto, non immaginando che un calderone governato da una multinazionale dell’intrattenimento non è certamente il miglior viatico per un settore che dovrebbe tendere verso la massima qualità e non verso il massimo profitto.
L’assoluta mancanza di strategia volta a una riapertura degli spazi dello spettacolo dal vivo si evince anche dalla Conferenza Stampa del 26 Aprile, in cui per sommi capi il Presidente del Consiglio Conte ha delineato il calendario delle aperture fino a Giugno, e nella quale la categoria non è stata nemmeno nominata.
Se dal Ministro della Cultura arriva una tale semplificazione della questione, nemmeno stupiscono le iniziative di istituzioni pubbliche avallate in alcuni casi dagli artisti, sicuramente ancora privi di una coscienza del proprio ruolo sociale o del modo in cui questo viene sfruttato dalla istituzioni per mantenere il proprio dominio culturale. Non possiamo che stigmatizzare la leggerezza con la quale enti comunali (su tutti il Comune di Catania e il comune di Salerno) hanno pubblicato una non meglio specificata chiamata alle arti nella quale, in soldoni, si faceva affidamento al buon cuore degli artisti per donare parzialmente o integralmente la loro arte all’Ente che poi l’avrebbe divulgata sui social, senza alcun onere per l’amministrazione in questione. Siamo al paradosso. Ad artisti già in precedenza spesso pagati in “visibilità”, questi enti non negano anche il riconoscimento della dignità del lavoro svolto.
Fa sorridere, poi, che siano le stesse amministrazioni a richiedere contribuiti gratuiti quando, anche a causa delle lungaggini degli Enti nel liquidare i fondi, il comparto dello spettacolo dal vivo è spesso creditore di contributi e rimborsi che restano sospesi anche per 24-36 mesi, compromettendo il lavoro delle organizzazioni culturali, e la loro possibilità di pagare professionisti e collaboratori.
Anche altre amministrazioni cittadine o metropolitane hanno avviato programmi simili, con dirette web e interventi degli artisti, spesso soltanto funzionali alla cerimoniosa solfa del #restareacasa. Queste proposte, che lasciano esterrefatti, hanno creato anche l’effetto di acuire divisioni tra artisti, soprattutto tra quelli cosiddetti amatoriali e i professionisti, laddove sarebbe invece necessario chiedere alle istituzioni di esigere dal Governo una strategia complessiva di rientro e di ripresa, per superare le criticità presenti fin da prima della crisi sanitaria. Una strategia che, se giudicata da molti insufficiente per altri settori produttivi, è del tutto assente per quello della Cultura e dello Spettacolo dal vivo.
Emblematica, a questo avviso, anche l’edizione di quest’anno del famoso Concerto del Primo Maggio, accanto al cui nome campeggiano da sempre a caratteri cubitali le sigle dei sindacati confederali (CGIL, CISL, UIL). Più che lanciare messaggi di solidarietà da palchi virtuali, ai sindacati andrebbero richieste altre iniziative. Mentre pochi privilegiati occupavano lo spazio dell’intrattenimento in prima serata sulla televisione nazionale, contemporaneamente altre centinaia di migliaia di lavoratori dello spettacolo restavano fermi nelle loro case, o protestavano in silenzio con campagne di sensibilizzazione social.
La Chiamata alle Arti e il Concertone denotano l’assoluto scollamento di Istituzioni e di questi sindacati dalla realtà dei lavoratori. Le prime credono di poter allietare le giornate delle famiglie, dei giovani, con questi eventi on-line, quando invece le stesse famiglie, gli stessi giovani, gli stessi lavoratori che hanno prodotto quei documenti d’arte reale hanno bisogno di risposte, di sostegno materiale, non solo di contributi morali.
I sindacati, dal canto loro, utilizzano nel manifesto del Primo Maggio parole vaghe sulla musica come elemento liberatorio collettivo per costruire il futuro, rinunciando al loro ruolo primario. D’altronde la realtà sindacale dei lavoratori dello spettacolo è estremamente frammentata: molte sigle, sindacati autonomi, cooperative, associazioni di categoria, faticano a fare pressione sulle decisioni politiche. Nonostante stiano lavorando per portare proposte ai tavoli ministeriali, viste le esigue risorse economiche riservate al comparto, sarà impossibile ottenere risultati concreti senza un reale impegno. Dalla precedente crisi finanziaria infatti (2008), i fondi alla cultura ancora non hanno recuperato il terreno perso (circa 700 milioni di euro in meno) e rappresentano una percentuale misera del PIL (lo 0,8%, contro il 2% assicurato, ad esempio, alle spese militari dal Governo Conte-bis entro il 2024). Questo calo complessivo non è controbilanciato dagli investimenti privati di cittadini-mecenati, aziende e fondazioni bancarie (tramite lo strumento dell’Art Bonus) che però si riservano spesso di accaparrarsi strutture di particolare interesse con ambizioni di profitto sul medio-lungo termine, compiendo i primi passi per vere e proprie acquisizioni private di beni pubblici, spesso aiutate dall’alienazione di immobili da parte dello Stato. I privati, anche banche e fondazioni, entrano di fatto nella direzione dello spettacolo dal vivo, veicolando progetti di ampio respiro internazionale, facendo di fatto concorrenza a piccole imprese del settore.
Quello che emerge da questa grande crisi è l’estrema necessità di una forte spinta unitaria dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo. Ai tanti tavoli di discussione nati spontaneamente sui territori si siedono realtà piccole e medio-piccole che sentono di dover abbandonare atteggiamenti individualistici per formulare proposte valide per la categoria. In questa fase sarebbe necessario che la parte cosiddetta creativa e quella delle maestranze “tecniche” si alleassero per raggiungere obbiettivi immediati in termini di diritti statutari e previdenziali, al momento di difficile accesso o inesistenti.
Nel contempo, in questo grande marasma, una fetta degli interessati è invischiata nel lavoro nero. Pur ammettendo che per una piccola minoranza si tratti di una scelta libera, nella maggior parte questo è il frutto di un potere contrattuale nullo, nei confronti dei datori di lavoro. La questione, che c’è e va affrontata, non deve portare i lavoratori regolari a vedere chi lavora al nero come un avversario tout court.
Nella dinamica capitalistica chi ha bisogno di lavoro non ha sempre gli strumenti per esigere i propri diritti, e senza leve contrattuali la posizione dominante è sempre quella del datore di lavoro. È in funzione di questo che il lavoro di un sindacato di lotta, e non concertativo, capace di intercettare le istanze della categoria in una dinamica di classe, è quanto mai necessario. Recuperare terreno sul campo dei diritti previdenziali e assistenziali, abbattere le formule di lavoro precario e irregolare, pretendere una più equa distribuzione di fondi pubblici e di risorse materiali anche non in termini di contributi diretti, modificare i termini stessi dell’affidamento dei fondi in modo che siano slegati da logiche di mercato. Questi potrebbero essere alcuni punti di partenza per una battaglia intermedia, che deve avere però un orizzonte più alto: la centralità nelle decisioni sul comparto affidata a chi il comparto lo porta avanti col lavoro di tutti i giorni. È necessario che siano salvaguardati i tanti centri culturali di comunità, che fanno anche da collante sociale e che in una situazione come quella attuale diventano necessari, mentre sono sempre più abbandonati all’autodeterminazione, quando di contro straripano i fondi per i “soliti noti”. L’imbuto dei fondi statali, infatti, relega agli ultimi gradini la stragrande maggioranza dei soggetti del settore che pure generano lavoro per molti, mentre i Teatri Nazionali, i Circuiti, i grandi Festival e Rassegne di respiro internazionale hanno la parte del leone.
Appare quindi necessario, per distruggere il velo di paternalismo e superficialità nei confronti della categoria, imbracciare strumenti di lotta, di pari passo con le altre categorie di lavoratori.
Ciò non toglie che chiunque viva il mondo dello spettacolo nel ramo creativo debba abbandonare i propri strumenti a fronte di un necessario impegno sociale o politico. A scioperi, dimostrazioni, picchetti davanti a teatri o cinema, resta necessario si affianchi il libero svolgimento del proprio linguaggio in funzione della lotta che si vuole intraprendere. Abbandonare il campo della contro-informazione e contro-educazione culturale sarebbe un errore. Farsi vincere dalle dinamiche di “vendibilità” dei propri prodotti artistici, delegando completamente dalla funzione intrinsecamente politica dei media artistici, allontanerà ancora di più la presa di coscienza da parte anche dei fruitori indiretti dello spettacolo, che invece necessitano d’essere messi a parte del vero funzionamento di questa grande e multiforme industria, che non è un paese dei balocchi da guardare passivamente tramite uno schermo. Certo da solo, come strumento, lo sguardo di classe degli artisti non è mai bastato e a maggior ragione non basterà a modificare lo stato di cose presenti. Nonostante tutto, la bellezza da sé non potrà mai salvare il mondo.
Perché alla baionetta sia equiparata la penna è anche necessario che sia la penna, a farsi baionetta.