Fabiano Antoniani è morto in una clinica svizzera, dove aveva deciso di recarsi per trovare una morte che in Italia non è consentita dalla legge. Paraplegico e cieco a seguito di un incidente stradale, la sua storia era stata raccontata da servizi televisivi e inchieste. Nonostante le cure e i tentativi di riabilitazione era da anni costretto a vivere a letto, con un respiratore artificiale e alimentazione attraverso macchinari, riuscendo solamente a parlare a fatica e per brevi periodi.
La sua unica richiesta da quel momento era stata di poter porre fine a un’esistenza che era diventata solamente dolore fisico continuo, senza alcuna prospettiva praticabile di uscita. Nonostante appelli e richieste alle istituzioni, in mancanza di alternative, come molti prima di lui ha scelto di andare in una clinica all’estero dove la pratica del “suicidio assistito” è consentita. Tutto ciò ha legittimamente riaperto il dibattito nel nostro paese sulla mancanza di una regolamentazione di queste situazioni. Sono anni che se ne discute eppure in Parlamento non si è mai riusciti a trovare alcuna maggioranza disposta a trovare una soluzione. Perché?
Se l’Italia ancora oggi non ha una legge che consente l’eutanasia, non è certamente per un ragionamento di inclusione sociale e di assunzione di responsabilità collettiva sulla condizione del malato e della sua famiglia. Non è, come pure provano a sostenere alcune associazioni cattoliche e lo stesso Pontefice nelle sue riflessioni, un atto di resistenza ad una logica efficientistica della vita che risponde alle esigenze della società di mercato – modo con cui eufemisticamente viene definito il capitalismo – e alla sua cultura del consumo e dell’individualismo.
Questa lotta giusta, che noi comunisti assumiamo come essenza stessa del nostro agire, si realizza sostenendo economicamente e socialmente le persone malate e le loro famiglie, sui posti di lavoro, con la gratuità e la qualità delle strutture sanitarie pubbliche, ossia con tutte quelle misure che oggi i governi capitalistici – in cui siedono pure partiti o esponenti cattolici – riducono o azzerano proprio in nome dell’efficienza del mercato, e dei vincoli economici che vengono richiesti. Queste forze politiche, sempre pronte a cavalcare qualsiasi tema “etico” inspiegabilmente finiscono sempre per perdere di concretezza e determinazione, quando si tratta di difendere con altrettanta efficacia, e eco mediatica, dagli attacchi concreti del capitale. Più facile parlare di teoria “gender” che di diritto alla casa, condizione della donna lavoratrice, precarietà di una generazione.
Tutte balle.
Se ancora oggi l’Italia non ha questa legge è perché esiste una visione ancestrale della vita e del dolore, retaggio della cultura cattolica dominante nel Paese.
L’idea della vita come dono di un’entità superiore, in quanto tale non disponibile dall’uomo, ma appartenente a questa entità. Da sempre l’idea più reazionaria e più utile all’accettazione passiva della propria condizione da parte delle classi dominate. Oggi in crisi di fronte al consumismo e all’individualismo, prodotti del capitalismo nella sua fase attuale, ma sempre pronti a ritagliarsi spazi, persino come apparenti sacche di resistenza a questo fenomeno. Si pensi all’America dove questo aspetto reazionario religioso riesce a conquistare quei settori popolari impoveriti dalla crisi, ma anche al ruolo in generale di una Chiesa sempre più dinamica e attraente, ma non per questo diversa dalla sua funzione storica. A quest’idea della vita dono di un’entità superiore, non possiamo che contrapporre quella di una vita prodotto della materia, le cui regole finali ci sono ancora in parte sconosciute, e che solo attraverso il progresso scientifico e tecnologico riusciremo a conoscere. Una materia inanimata, che per sue leggi, per sua natura a determinate condizioni si muta in esseri che prendono vita, che si muovono, che arrivano a pensare e a poter determinare le proprie scelte, senza bisogno di alcun essere superiore da immaginare, che intendono vivere la propria vita – quella esistente- senza doverne immaginare, a compensazione delle sofferenze, delle perdite e dell’ubbidienza sociale, una immaginaria futura in cui ricevere premi per la propria sottomissione.
Così ad esempio il dolore diventa un semplice prodotto di cause fisiche e non uno strumento di connessione e di espiazione individuale, insostituibile e inevitabile, come è per la Chiesa. L’idea che ha fatto santificare – nel vero senso della parola e prima ancora mediaticamente – una persona coma Madre Teresa di Calcutta secondo la quale: «se accetti la sofferenza e la offri a Dio, ti darà gioia. La sofferenza è un grande dono di Dio».
Una originale visione per cui non si rifiutavano le generose donazioni dei fedeli, anche principesse e star televisive, da tutto il mondo, ma si evitava accuratamente di creare veri ospedali in cui si curassero i malati, lasciandoli morire in nome del dono della sofferenza.
Il progresso scientifico ha consentito alla medicina di inaugurare strade fino a pochi anni impensabili. Grazie a questo progresso si pongono e si porranno sempre di più scelte davanti agli individui e alla società. I malati che oggi invocano l’eutanasia solo poche decine di anni fa, sarebbero morti senza che la medicina, le sostanze scoperte, e i macchinari realizzati, avesse potuto mantenerli in vita. E in futuro sarà sempre più così. Di fronte a temi così complessi l’unico parametro deve essere l’effettività del diritto di scelta. Quell’elemento che in ultima istanza è connaturato più di tutti con l’essere umano.
Un malato deve prima di tutto avere il diritto di vivere, quale sia la sua condizione economica, e quale sia il costo delle cure. La società – lo Stato – deve assicurare al malato e alla sua famiglia questo diritto, compreso il diritto di vedere alleviate le sofferenze e – se così si può dire – il peso che inevitabilmente grava sui familiari nell’assistenza, in ambito lavorativo e domestico. Senza queste premesse ogni scelta finirebbe per essere condizionata – se non determinata – dalla realtà esterna, e in definitiva dal contesto sociale e dalla classe di appartenenza. Questa lotta è la lotta per i diritti sociali, per l’universalizzazione reale delle conquiste del progresso economico e scientifico della nostra società, da cui oggi restano parzialmente o completamente esclusi i settori popolari.
È la lotta di tutte le lotte. Perché lo stesso ragionamento si può estendere in ogni settore della società: dalla scelta del proprio percorso di vita, alla scelta di una donna che decide se abortire o meno.
Una volta assicurata questa effettività la scelta diviene effettivamente libera.
E in nome di questa libertà una società moderna, che faccia del progresso scientifico un’arma di liberazione universale e non un ulteriore strumento di oppressione e privilegio, deve garantire anche la scelta di morire secondo dignità.
Una scelta che deve essere garantita dallo Stato, pena diventare a sua volta una possibilità di classe per chi ha i soldi per andare in Svizzera in una clinica privata.
Una scelta che deve certamente avere dei vincoli chiari da parte della legge, che non può portare ad una dilatazione senza fine, ma che in casi di sofferenza conclamata priva di possibilità d’uscita è un gesto di dignità e di pietà da riconoscere.
Lo riconosciamo ai cani e agli animali domestici, ma non ancora agli esseri umani.